La Siria sta gettando le basi per il dopo Assad. Mentre i siriani celebrano il crollo del regime del presidente Bashar al-Assad, le associazioni umanitarie e le controparti internazionali guardano con attenzione alla transizione in corso. Se da una parte stanno dando il loro appoggio alla ricostruzione del Paese, che cerca di uscire da 13 anni di guerra civile, dall’altra fanno pressioni affinché le discussioni per costruire la nuova Siria si basino su inclusività, rispetto per le minoranze e diritti delle donne.
L’inclusione di queste ultime nei processi decisionali è infatti considerato essenziale per garantire una rappresentanza equa nella ricostruzione del Paese. Ma i segnali che arrivano dal Paese non stanno andando in questa direzione. Hayat Tahrir al Sham, la coalizione di milizie che ha rovesciato il potere siriano di Bashar al Assad, afferma all’ANSA attraverso un portavoce che il nuovo governo in Siria non imporrà il velo alle donne, né introdurrà alcuna forma di limitazione alle libertà individuali. D’altra parte, però, nel nuovo governo non sembra esserci posto per le donne, tanto che a livello europeo è partita una raccolta firme perché venga riconosciuto alle donne il diritto di avere una rappresentanza politica.
Un’avanzata lampo dei ribelli ha posto fine a 24 anni di governo di Bashar al-Assad. A guidare l’offensiva, partita il 27 novembre e che ha visto il suo apice l’8 dicembre con la presa della capitale da parte delle forze di opposizione e la fuga del presidente, è stato l’Hay’at Tahrir al-Sham, un gruppo militante islamico sunnita attivo principalmente in Siria, istituito nel 2012 con un nome diverso, Fronte al-Nusra, e fino al 2015 affiliato diretto di al-Qaeda.
La volontà oggi è ricostruire la Siria come un Paese pluralista, ma rimangono dubbi sul fatto che il nuovo governo rispetterà effettivamente i diritti delle donne e delle minoranze. Ciò che accadrà ora, con la capacità di mantenere le promesse fatte, sarà il banco di prova per i nuovi governanti del Paese.
Istantanea del Paese
La famiglia Assad ha governato la Siria per 54 anni con il pugno di ferro. Dopo che le proteste pro-democrazia del 2011 sono state soffocate con forza, il Paese è entrato in una devastante guerra civile che ha lasciato un conto, sul piano sociale ma anche economico, pesantissimo: più di mezzo milione di persone sono state uccise e altre 12 milioni sono state costrette a lasciare le loro case.
La guerra ha causato quella che l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati ha definito «la più grande crisi umanitaria della nostra era». Il suo impatto ha portato il 56,7% dell’intera popolazione a essere o sfollata internamente o rifugiata. In numeri, 5,5 milioni di persone hanno lasciato il Paese e 6,8 milioni sono sfollati interni che vivono in condizioni precarie, senza accesso ai beni di prima necessità e servizi. L’Onu afferma che nel Paese il 90% dei siriani vive al di sotto della soglia di povertà.
Le conseguenze del conflitto si insinuano in ogni aspetto della vita dei siriani: il Paese ha perso 42 posizioni nell’Indice di Sviluppo Umano; oltre il 40% delle infrastrutture sanitarie è distrutto (come gran parte delle infrastrutture, d’altra parte); il Pil è passato da 252 miliardi di dollari nel 2010 a 8,9 miliardi di dollari nel 2020, per un calo del 96,5% secondo la Banca Mondiale. Come riporta il report Humanitarian needs overview 2023 di Ocha, ancora oggi più di 2 milioni di bambini e ragazzi siriani (tra i 6 e 17 anni) non vanno a scuola.
Un documento programmatico dell’Ohchr in particolare cerca di andare più a fondo nell’impatto del conflitto su donne e ragazze. Il report dimostra che la guerra civile ha eroso i diritti delle donne, anche quelli più elementari: al cibo e alla salute. In Siria, su quasi 6 milioni di persone che hanno un bisogno di assistenza nutrizionale, il 74% sono donne e ragazze.
Le famiglie con capofamiglia donna hanno il doppio delle probabilità di non riuscire a soddisfare i bisogni di base del proprio nucleo rispetto alle famiglie con capofamiglia uomo. Inoltre, sempre a causa del conflitto, i matrimoni precoci e forzati sono aumentati in tutte le aree della Siria, spesso utilizzati per alleviare le famiglie dalle difficoltà finanziarie esacerbate dal conflitto, o per mitigare i rischi reputazionali per l’onore della famiglia in mezzo all’aumento dei rischi di violenza sessuale in ambienti abitativi sovraffollati.
Secondo i dati a disposizione di Un Women, il tasso di partecipazione alla forza lavoro femminile è del 16,38%, con un tasso di disoccupazione del 21,52%. Un’altra sfida, sempre secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, è rappresentata dall’accesso alla casa e alle proprietà. Un tema complesso anche per il numero, che è andato crescendo, di vedove e altre donne capofamiglia i cui mariti sono stati fatti sparire con la forza dal regime. Le fonti stimano che la percentuale di donne in Siria che possiedono proprietà residenziali sia tra il 2 e il 5. Le difficoltà legate alla proprietà sono esacerbate dalle norme culturali, abbinate a leggi discriminatorie che regolano la distribuzione dell’eredità.
L’Indice Globale del Divario di Genere in Siria è pari al 57%, con sottopunteggi molto diversi tra loro: 95% per l’istruzione, 97% per la salute, 29% per la partecipazione economica e 7% per l’empowerment politico. Proprio la rappresentanza politica delle donne in Siria era ridotta all’osso, anche per via delle leggi autoritarie che vigevano nel Paese.
Chi sono i ribelli
Con la caduta di Assad il popolo si sente finalmente libero. C’è la speranza per il futuro di voltare pagina, rompere con decenni di repressione e cambiare passo anche sul tema dei diritti umani.
La volontà, almeno a livello di dichiarazioni pubbliche, per ora sembra quella di ricostruire la Siria come una nazione pluralista. Tuttavia rimangono dubbi sul fatto che il governo rispetterà i diritti delle donne e delle minoranze.
Ne è una dimostrazione la dichiarazione di Kaja Kallas, l’Alta rappresentante dell’Ue per la Politica estera, che ha detto: «Giudicheremo l’Hts non dalle parole ma dai fatti nei prossimi mesi».
A lanciare la grande offensiva che ha portato in pochi giorni alla presa della capitale Damasco, è stato infatti l’Hay’at Tahrir al-Sham (Hts), un gruppo militante islamico sunnita attivo principalmente in Siria, derivazione di un nucleo istituito nel 2012 con un nome diverso, Fronte al-Nusra, e fino al 2015 affiliato diretto di al-Qaeda.
Nel 2016 il gruppo ha subito una progressiva trasformazione fino a dichiararsi un’entità indipendente senza più legami con l’organizzazione terroristica. Lo stesso leader Abu Mohammad al-Jolani, che adesso preferisce farsi chiamare Ahmad al Sharaa, di recente ha detto in un’intervista alla Cnn di aver abbandonato la sua ideologia radicale.
Si spera in posizioni moderate al potere
Per il quinto anno consecutivo, a giugno 2023, la Siria era il terzo Paese meno pacifico al mondo, secondo il Global Peace Index, battuto solo da Yemen e Afghanistan. Oggi però i siriani sperano in un cambiamento.
Gli occhi del mondo sono puntati sui nuovi uomini al potere che, a più riprese, hanno dichiarato di non volere introdurre alcuna forma di limitazione alle libertà individuali e ribadito l’impegno a garantire uguali diritti alle minoranze (tra cui cristiani, curdi, assiri).
«Siamo qui ora per costruire una nuova Siria che accolga tutti, senza eccezioni» hanno annunciato i ribelli. Tra le prime direttive emanate, una riguarda proprio le donne. La nuova leadership siriana ha infatti emesso un decreto che vieta l’uso forzato dell’hijab, secondo quanto riferito da Al Watan, sottolineando anche il diritto delle donne a vestirsi come vogliono.
Diplomazia all’opera
In attesa di elezioni, c’è una crescente pressione globale sul governo di transizione siriano affinché si impegni nella creazione di una nuova governance che rappresenti tutte e tutti i cittadini.
Il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha chiesto, in una dichiarazione congiunta, che il processo politico in Siria sia «inclusivo». Anche l’organizzazione Human Rights Watch ha chiesto che l’Hts includa le donne in qualsiasi struttura di governance.
La situazione in Siria è stata discussa anche dal Gruppo dei Sette (ancora per poco a presidenza italiana). I Paesi del G7, spiegano in una nota ufficiale, offrono il loro pieno sostegno ma si raccomandano anche che il processo di transizione conduca a un «governo credibile, inclusivo e non settario, che garantisca il rispetto dello stato di diritto, dei diritti umani universali, compresi i diritti delle donne».
Il capo della politica estera dell’Ue Kallas ha chiarito che le sanzioni contro la Siria non saranno tolte fino a quando i nuovi governanti non garantiranno che le minoranze non siano perseguitate e che i diritti delle donne siano protetti all’interno di un governo unificato che rinneghi l’estremismo religioso.
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