Samia Yusuf Omar, dalle olimpiadi alla morte nel Mediterraneo

Chi è Samia Yusuf Omar, la protagonista del film “Non dirmi che hai paura” nelle sale italiane dal 5 dicembre? Per raccontarlo, dobbiamo cominciare da lontano.

Alle Olimpiadi di Londra del 2012 la Gran Bretagna guadagnò due ori nella corsa grazie a Mo Farah, atleta di origine somala che solo dieci anni dopo, in un documentario della BBC, racconterà la vera storia della sua vita. Una storia di abusi, di separazioni e solitudini, orfano per la guerra civile, bambino vittima della tratta illegale di esseri umani, che nello sport aveva trovato non solo il riscatto personale, ma anche la possibilità di raccontare e portare alla luce la sua storia, purtroppo non un caso isolato. Certo, per lui c’è stato un lieto fine: Mo Farah è diventato un cittadino britannico, ha potuto studiare, costruirsi una carriera e una famiglia. Ma per una storia che trova il lieto fine, quante finiscono nel dimenticatoio e spariscono tra le ombre di ciò che, dalle comodità dei nostri privilegi, non vogliamo e non sappiamo vedere?

All’indomani della vittoria di Mo Farah, davanti a una platea riunita a Mogadiscio per ascoltare i membri del Comitato olimpico nazionale, un’altra medaglia olimpica prese parola, Abdi Bile, dicendo: «Siamo felici per Mo, è il nostro orgoglio, ma non dimentichiamo Samia. Sapete che fine ha fatto Samia Yusuf Omar? La ragazza è morta…morta per raggiungere l’Occidente. Aveva preso una carretta del mare che dalla Libia l’avrebbe dovuta portare in Italia. Non ce l’ha fatta. Era un’atleta bravissima. Una splendida ragazza».

Samia Yusuf Omar aveva corso per la Somalia a Pechino nel 2008: senza un vero allenatore, poco nutrita, le scarpe le erano state regalate dal team del Sudan. Arrivò ultima, e al rientro in patria dovette anche scontrarsi con le crescenti minacce del gruppo islamista che all’epoca stava prendendo potere nel Paese, per il quale era colpevole di aver corso senza velo, ma anche semplicemente di aver corso. Il chiodo fisso delle Olimpiadi le era rimasto, però, e tendendo verso Londra, aveva cercato di raggiungere l’Europa attraverso la tratta del Mediterraneo, trovando la morte poco prima di raggiungere le coste italiche.

Il libro

Giuseppe Catozzella

Proprio con le dichiarazioni di Abdi Bile, la storia di Samia Yusuf Omar ha incontrato lo scrittore Giuseppe Catozzella, come racconta lui stesso: «L’istante preciso in cui sentii nominare il mio Paese (ero uno scrittore italiano arrivato quasi a casa di quella ragazza a bordo di un aereo, con l’agio di qualche settimana di lavoro in Africa), il fatto che Samia fosse morta al largo del mio mare, che per lei s’identificava con la salvezza, in quell’istante seppi che avrei raccontato la sua storia in un romanzo. Non fu una decisione, fu arrendersi a un dato di fatto. Era il 2012 e di migrazioni, di morte in mare, di tratte africane (poi sarebbero state definite “del Mediterraneo centrale”) non si parlava molto».

Questa è la genesi di “Non dirmi che hai paura”, romanzo pubblicato da Feltrinelli nel 2014, vincitore del Premio Strega Giovani e finalista al Premio Strega, caso editoriale da 500mila copie in Italia e 800mila copie nel mondo, libro per il quale Catozzella è stato nominato dalle Nazioni Unite ambasciatore per l’agenzia ONU per i Rifugiati, per “aver fatto conoscere in tutto il mondo la storia di una migrante, e attraverso di lei di tutti i migranti”.

È questo infatti il grande pregio del romanzo: la storia di Samia Yusuf Omar è speciale, perchè lei è stata un’atleta capace di percorrere la via del sogno olimpico, ma allo stesso tempo è una storia come tante, è la storia di una vita che come moltissime altre vite ha trovato la sua fine nel Mediterraneo, in un viaggio di speranza e tragedia, di desiderio e desolazione. Il racconto di Catozzella contiene tutte queste istanze, con il rigore documentaristico e la passione generosa per il racconto dell’Altro: “Non dirmi che hai paura” è infatti il primo libro della “trilogia dell’Altro”, in cui lo scrittore ha raccontato il concetto di straniero, declinato in tre movimenti universali: la guerra, il viaggio, l’approdo.

«Furono necessari sette mesi, e l’aiuto di una mediatrice culturale somala, perché la sorella di Samia, Hodan, accettasse di incontrarmi a Helsinki, dove era a sua volta migrata» prosegue Catozzella, «in quei mesi nel frattempo incontrai una trentina di ragazzi e ragazze migranti, chiedevo loro di raccontarmi il Viaggio attraverso l’Africa e il mare: sapevo che avrei raccontato quello di Samia e dovevo capire cosa davvero fosse questo Leviatano di cui nel 2012 ancora non si parlava, quali sentimenti ed emozioni fossero in gioco». Sentimenti ed emozioni che l’autore ha scelto di raccontare facendo parlare in prima persona Samia stessa: come in una lettera inviata al mondo, per restituire la voce a lei che non poteva più raccontare la sua storia.

Il film

Yasemin Şamdereli

Una storia potente, che deve la sua forza non solo alla penna delicata e profonda di Catozzella, ma anche e soprattutto all’incredibile personaggio di Samia: una bambina e poi una giovane donna determinata, pronta a inseguire i suoi sogni al di là di ogni ragionevole paura, con l’innocenza e la sicurezza di chi vede solo la giustizia e rifiuta di cedere al male con i suoi dubbi e il suo silenzio.

È questa la storia che si racconta anche attraverso le immagini del film che ne è nato, come spiega la regista Yasemin Şamdereli: «Volevamo celebrare la vita di questa giovane atleta. Volevamo mostrare di cosa fosse capace questa giovane donna e perché gli islamisti la temessero e la combattessero così tanto. Samia era un’ispirazione per molti e voleva semplicemente diventare una grande atleta, cosa che è riuscita a fare, nonostante tutti gli ostacoli. Ci siamo concentrati sugli aspetti che sono fonte di ispirazione, sconvolgenti ma assolutamente avvincenti. Penso che nella sceneggiatura siamo riusciti ad ottenere questo risultato. Non c’è progetto in cui io creda di più e non c’è storia di cui mi sia innamorata così tanto, come quella dell’atleta somala Samia Yusuf Omar. Per nessun progetto ho lottato così tanto e così a lungo».

Samia a Pechino 2008

In molte situazioni, anche nei momenti più drammatici, il film mostra ciò che Samia immagina o desidera, le sue fantasie che si materializzano per darle coraggio. C’è un’amorevole meraviglia che percorre le immagini: mai un indugio nella tragedia, nel dolore, nessuna occasione di empatia consolatoria per noi comodamente seduti sulle poltrone del cinema. Come spettatori e spettatrici non siamo chiamati a guardare Samia come una figura tragica in cui si consuma un destino ineluttabile, ma come una persona che in ogni istante, fino all’ultimo, ha cercato la vita, il desiderio, l’opportunità. Una bambina come tutti i bambini, una ragazza come tutte le ragazze.

A uscire sconfitta dalla sua storia non è lei, ma l’insulso privilegio che ci permette di circoscrivere le vite altrui nella tragedia mantenendole distanti, accettando l’impotenza, come se anche il privilegio in fondo fosse un destino. Restituire l’individualità a Samia, come accade in questo film, rende invece sottilissimo il velo che separa l’uno dall’Altro.

Nelle sale dal 5 dicembre, distribuito da Fandango, “Non dirmi che hai paura” ha ricevuto la menzione speciale della giuria al Tribeca Film Festival 2024. La protagonista (Samia adulta) è Ilham Mohamed Osman, sorella della co-regista Deka Mohamed Osman, entrambe figure fondamentali per la riuscita del film in termini di collaborazione con la famiglia di Samia a Mogadiscio, rintracciata grazie all’impegno di Suad Osman, punto di riferimento della comunità somala a Torino emigrata in Italia negli anni ’80. Una nota va anche per la scenografia di Paola Bizzarri e i costumi di Sophie Oprisanu: un’attenzione all’autenticità nel dettaglio che non lascia veramente scampo a chi nel cinema cerca la conferma delle proprie illusioni, e qui si trova invece scaraventato in una storia che apre gli occhi su molte verità.

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