In Italia il loro talento continua a germogliare. Ma le radici contano e non vogliono rinunciarci, nonostante continuino ad essere estirpate dai talebani: le donne afghane esistono e resistono. L’«apartheid di genere» in Afghanistan opprime tutte le sfere della loro esistenza attraverso un regime sistematico e istituzionalizzato. La resistenza delle donne avviene attraverso l’instancabile difesa della loro libertà e delle loro competenze.
Mentre il regime talebano proibisce alle ragazze di studiare – a dicembre 2022 sono stati formalmente vietati alle ragazze gli studi universitari – tante di loro arrivano in Italia e, grazie a borse di studio stanziate da fondazioni e associazioni, continuano a tenere viva la cultura del proprio Paese: tornano negli atenei, frequentano le università italiane e occupano anche quei banchi in cui il “talento” delle donne stenta a prendere spazio in Italia, le materie Stem.
Dallo studio allo sport. In risposta al divieto dei talebani di praticare sport perché giudicato non necessario e inappropriato, le donne afghane continuano a praticarlo trasformandolo in un’ancora di salvezza per lasciare il Paese. Grazie a una fitta rete di associazioni e terzo settore, studio e sport rappresentano solo alcune delle dimensioni che caratterizzano le nuove vite delle donne afghane che sono riuscite ad arrivare in Italia: con lo sguardo rivolto sempre verso casa, guidano la resistenza al regime mettendo a sistema le loro voci e facendo quello che i talebani ostacolano. Esistere in ogni dimensione.
Hasina Razmam, a un passo dalla laurea a Kabul: oggi laureanda Stem a Torino
Per tante ragazze un triennio è il tempo in cui dedicarsi agli studi per conseguire la laurea. Per Hasina Razma, 23enne nata a cresciuta a Kabul, questi ultimi tre anni hanno invece segnato un cambiamento inimmaginabile per la vita di qualsiasi persona: assistere al capovolgimento del quotidiano all’interno del proprio Paese, tanto profondo da dover cercare una strada alternativa oltre confine.
Grazie alle borse di studio di Culture Builds the Future, il progetto coordinato da Fondazione Emmanuel e sostenuto anche da Fondazione CRT, Hasina ha trovato un’alternativa per recuperare i suoi sogni interrotti. Prima dell’estate 2021 studiava Scienze politiche delle relazioni internazionali all’Università di Kabul. Ad agosto 2021, insieme ad altre 4.890 persone con cittadinanza afghane, è stata evacuata attraverso 87 voli organizzati dal governo italiano. Arrivata a Torino, Hasina ha ricominciato dall’informatica, iscrivendosi al corso di computer science presso il dipartimento di informatica.
«A Kabul mi mancava un semestre per laurearmi – spiega ad Alley Oop – Per questo, quando sono arrivata in Italia, la cosa che volevo più di tutte era vedermi laureata. Poi trovare un lavoro e imparare l’italiano benissimo». Oggi Hasina parla dari (lingua madre), inglese, italiano, hindi, pashto e thai: «Imparare l’italiano è stata un’importante sfida e gli esami universitari da superare ad ogni sessione sono stati un forte stimolo» racconta, sottolineando un altro aspetto: «Mi ha stupido vedere così poche ragazze in Italia iscritte alla facoltà di informatica e di ingegneria. A Kabul, invece tante ragazze studiano queste materie e ne sono appassionate».
Il diritto allo studio guida la resistenza delle ragazze afghane
Insieme ad Hasina, grazie alle borse di studio di Culture Builds the Future, altre 9 ragazze afghane – Mina, Nilofar, Mursal, Juwairia, Sabera, Farzana, Maryam, Nazanin – sono riuscite a proseguire gli studi. L’obiettivo è supportarne altre per attivare una rete virtuosa che le salvi dall’oppressione del regime talebano: arrivare in Italia significa avere l’opportunità di continuare a esistere nella sfera pubblica.
«In Italia sto bene, vivo in uno studentato insieme ad altri ragazzi e ragazze – spiega Hasina – ma la parte difficile è stata realizzare che stavo lasciando tutto quello che ho costruito nel mio Paese: mi manca moltissimo, come le mie amiche. Alcune di loro sono riuscite a fuggire. Altre sono rimaste a Kabul. Non hanno mai potuto laurearsi, avrebbero dovuto farlo come me. Ma la situazione sta diventando sempre più difficile». La resistenza dal basso, a Kabul, esiste e si muove. Ma, teme Hasina, potrebbe non bastare: «Le scuole clandestine, come i corsi di lingue e di arte, sono organizzate dalle donne per continuare a studiare. Le donne vogliono tutti i loro i diritti. Ma, se non hanno nemmeno il diritto di manifestare il loro volere, diventa difficile la resistenza» dice ad Alley Oop. Per cambiare le cose, come sta avvenendo in Iran con la quotidiana disobbedienza civile della popolazione, è unire le forze: «Non basta solo la resistenza delle donne – continua Hasina – Serve la forza di tutto il popolo».
Intanto, le sue prospettive future, sono chiare e mettono al centro studio e impegno a tutela delle altre: «La carriera nel digital, la partecipazione attiva a sostegno delle altre ragazze afghane, il vivere una vita normale nella consapevolezza che nessuno può sapere cosa ci riserva il futuro, ma se abbiamo la possibilità di costruire un nostro percorso, gli obiettivi che ci poniamo possono sempre essere raggiunti».
Le cicliste afghane arrivate in Italia, lo sport che salva la vita
Hanno tra i 15 e i 32 anni e praticano uno sport – il ciclismo – che nell’Afghanistan dei talebani è considerato inadatto alle donne perché le rende impure, quindi non più desiderabili per gli uomini. Nel 2016 sono state protagoniste di un documentario francese, “Les Petites Reines de Kabul”. Nelle loro storie, talento e determinazione. Masomah Ali Zada ha partecipato alla gara olimpica a cronometro, a Tokyo, nella squadra dei rifugiati. L’attivista Zhara Atayee, invece, nel 2014 ha guidato in Afghanistan un team di cicliste che pedalavano per mostrare alle altre ragazze che, come i maschi, anche loro potevano andare in bici. Zuliekha Sarwari, a ottobre 2022, ha gareggiato nella nazionale femminile ai Campionati di ciclismo su strada femminili dell’Afghanistan in Svizzera. Erano in 49, arrivate da Svizzera, Italia, Francia, Germania, Canada e Singapore per correre insieme con la maglia “Racing for change”.
Le testimonianze di vita delle giovani cicliste afghane raccontano una parte della loro storia: fuggite in Pakistan dopo la presa al potere dai talebani – con il supporto dell’imprenditore israeliano Sylvain Adams, che con la sua squadra Israel Premier Tech e l’ong IsraAid ha aiutato il team a lasciare l’Afghanistan – sono arrivate in Italia nel luglio 2022 grazie a una virtuosa rete di accoglienza che testimonia l’efficacia di fare squadra per difendere i diritti umani concretamente nella vita quotidiana.
Tutto è partito dalla giornalista sportiva Francesca Monzone, in contatto con le ragazze dal 2016. Dopo la presa al potere dei talebani nel 2021, la giornalista ha subito accolto la richiesta d’aiuto delle ragazze attivando tutti i contatti e i procedimenti utili a organizzare il loro spostamento in Italia. L’associazione Rete per la Parità, presieduta da Rosanna Oliva De Conciliis, si è schierata costantemente al fianco della giornalista sportiva Francesca Monzon portando a termine l’obiettivo: far arrivare le giovani cicliste in Italia e provvedere al loro percorso di integrazione.
Pedalare verso la libertà, «al di là di ogni differenza religiosa»
Il traguardo, reso possibile da Rete per la Parità, insieme alle altre realtà aderenti, si inserisce nel percorso che l’associazione percorre al fianco della Federazione delle chiese evangeliche (Fcei) in Italia e delle amministrazioni locali, a sostegno dell’accoglienza e dell’integrazione. «Nel dicembre 2021, per favorire l’assistenza e l’accoglienza delle cittadine e dei cittadini afghani evacuati da Kabul, Rete per la Parità – insieme a Le Contemporanee, al Consiglio Nazionale Donne Italiane e al Soroptimist International d’Italia – ha sottoscritto al Viminale un protocollo d’intesa valido per i successivi sei mesi. L’atto è stato diramato dal ministero dell’Interno alle prefetture e dall’Anci ai comuni italiani per favorire i contatti diretti a livello locale» spiega ad Alley Oop Sandra Sarti, già prefetta della Repubblica e segreteria di Rete per la Parità.
Tuttavia, a funzionare più del protocollo, è stata la capacità delle associazioni di fare rete e attivare i contatti nazionali e locali così da dare concretezza al percorso di accoglienza e integrazione. «Dopo la firma del protocollo, Rete per la Parità ha accolto la richiesta di sostegno pervenuta dalla giornalista Monzone, che seguiva le vicende di un gruppo di giovani cicliste e alcuni dei loro familiari, complessivamente 69 persone. Erano afghane e afghani di origine Hazara, che riusciti a fuggire in Pakistan, cercavano di raggiungere l’Europa per scampare dalle persecuzioni a cui sarebbero stati sottoposti nel caso in cui fossero stati rimandati in Afghanistan sia in ragione dell’appartenenza a quell’etnia, sia perché le giovani praticavano uno sport considerato impuro» racconta Sarti.
Così Rete per la Parità, affiancata dalla Fcei – Federazione Chiese Evangeliche Italiane, una delle organizzazioni che sulla base degli accordi governativi sono autorizzate a organizzare i corridoi umanitari, ha accettato di essere capofila del progetto di accoglienza e si è impegnata a seguire le necessarie procedure ministeriali per l’ingresso in Italia, organizzando un piano di accoglienza con il coinvolgimento della regione Abruzzo e del comune de L’Aquila dove il gruppo è stato ospitato negli stabili del progetto Case: 4.500 appartamenti antisismici costruiti a tempo record dopo il terremoto. Qui le cicliste e le loro famiglie hanno trovato alloggio, accoglienza e il diritto di coltivare «il pieno sviluppo della persona umana» come sancito dall’articolo 3 della nostra Costituzione.
«Si deve anche riflettere – ha commentato la presidente onoraria Rosanna Oliva de Conciliis all’arrivo delle gruppo in Italia – sulla particolarità di questa straordinaria vicenda nella quale, al di là di ogni differenza religiosa, i finanziamenti necessari finora sono stati assicurati da israeliani a sostegno di donne musulmane e delle loro famiglie e sul fatto che la loro accoglienza è stata resa possibile dal sinergico intervento della società civile che ha visto uniti cattolici e protestanti». Un illuminante e concreto esempio di come la dignità e il rispetto della persona umana venga prima di ogni altra cosa.
«Serve fare rete» per attivare un percorso a misura di persone
Alcune frequentano corsi universitari, altre si sono indirizzate verso attività e professioni in linea con le loro competenze e ambizioni: undici persone delle sessanta del gruppo ospitato a L’Aquila sono rimaste lì. Altre, invece, abitano tutto lo stivale perseguendo obiettivi professionali e personali: c’è chi, dopo aver svolto grazie alla Fcei un corso per “igienista dentale e assistente di poltrona”, ha ottenuto una borsa di studio a Parma come igienista dentale dove si sposterà prossimamente insieme ai genitori. Chi, invece, lavora con contratto a tempo indeterminato nell’ambito dell’edilizia. Cinque studentesse e uno studente, che nel tempo hanno notevolmente migliorato il livello di conoscenza della lingua italiana, hanno concluso positivamente il Foundation Year presso l’Università di Tor Vergata. Una delle ragazze, la cui famiglia vive a Firenze, ha accettato la borsa di studio offerta da un’università privata e sta frequentando un corso di moda e design. Suo fratello, invece, dopo aver frequentato un corso per receptionist alberghiero, è stato assunto in un grande albergo romano.
«Abbiamo operato come cabina di regia del progetto di accoglienza, ma è stata fondamentale la coralità di tutte le associazioni di carattere umanitario e del terzo settore che hanno potuto dare una mano in tutti i modi possibili» specifica Sarti, che aggiunge: «Grazie al supporto delle associazioni del territorio, a L’Aquila siamo riuscite a curare un rapporto continuo con l’ospedale locale e garantire visite ginecologiche per le ragazze. Insieme a progetti di educazione alimentare che potessero introdurle alla dieta mediterranea e a una nuova culturale alimentare». Il percorso di integrazione che funziona è quello che tiene conto delle singole esigenze individuali e se ne prende cura: «Ad esempio, alcune persone sono più reattive nell’imparare una nuova lingua. Altre invece vanno seguite maggiormente o indirizzate – continua Sarti – Abbiamo dovuto pensare a un supporto a trecentosessanta gradi, chiamando all’appello la rete di associazioni. La sinergia e il fare rete ha funzionato. In Italia l’accoglienza si fa. Ma va fatta meglio in questo senso: tenendo conto delle singole esigenze e delle storie delle persone.»
Un museo virtuale per «tramandare la cultura delle donne afghane», il progetto di Zeinab Albufalzil
Anche Zeinab Albufalzil è una delle giovani donne arrivate in Italia nel luglio 2022 grazie al corridoio umanitario curato da Rete Per la Parità e Fcei. La sua storia si distingue a partire dal suo desiderio: realizzare un museo online per far conoscere la voce delle donne del suo Paese, conservando la memoria della loro storia millenaria e delle loro tradizioni. Oggi l’ambizione diventa realtà grazie della consulenza scientifica di Giuliana Cacciapuoti, arabista, docente ed esperta di lingua araba e cultura arabo-islamica: forte della sua vasta esperienza professionale e umana ha creduto, insieme a Rete per la Parità, alla validità e all’importanza del progetto di Zeinab ed è entrata in contatto con il Museo delle Civiltà di Roma.
«La Rete della Parità mi ha coinvolta direttamente nel progetto. Ho tenuto degli incontri di conoscenza e formazione per le associazioni coinvolte direttamente nell’accoglienza, scardinando alcuni luoghi comuni sulle donne musulmane e afghane – spiega Cacciapuoti ad Alley Oop – E poi ho subito supportato l’idea del museo virtuale perché è il luogo dove le donne afghane potranno ritrovare le voci e i volti oggi completamente cancellati nel loro paese nello spazio pubblico».
La creazione del museo online, ospitato dalla piattaforma Con/Tradizioni del Museo delle Civiltà, è stata avviata: «Siamo nella fase della produzione del materiale da pubblicare sul sito del museo nel 2025 – racconta Cacciapuoti – La memoria materiale e immateriale della cultura della civiltà delle donne afghane è di fondamentale importanza: deve essere protetta, diffusa, custodita e tramandata attraverso lo spazio dinamico del Museo delle Civiltà». Anche in questo caso, aggiunge la docente, il lavoro di squadra è stato essenziale: «Il direttore del Museo delle Civiltà Andrea Viliani, con la dott.ssa Anna Rosa Di Lella, hanno sin dal primo momento accolto la mia richiesta e dato vita al protocollo d’intesa con le associazioni della rete».
Nazioni unite, «impossibile considerare i talebani come le autorità legittime del Paese»
La rete funziona. Ma la politica? Fra il 2002 e il 2021 la Cooperazione italiana ha contribuito allo sviluppo dell’Afghanistan con risorse per un ammontare pari a 1,25 miliardi di euro nei seguenti settori: infrastrutture e pianificazione urbana, sanità, governance e giustizia, settore privato, istruzione, parità di genere, agricoltura, sviluppo rurale, conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale. Dopo il 15 agosto 2021, l’Italia si è mobilitata insieme alla comunità internazionale per prestare assistenza alla popolazione afgana: l’approccio, definito “humanitarian plus”, punta a garantire una risposta ai bisogni emergenziali dei cittadini afgani (sicurezza alimentare, alloggi) e a fornire servizi base in settori quali la sanità e l’educazione.
Nel corso della conferenza di alto livello sull’Afghanistan del 13 settembre 2021, organizzata dalle Nazioni Unite, è stato annunciato l’impegno italiano per un importo di 150 milioni di euro, sia a favore dell’Afghanistan, sia per sostenere i Paesi limitrofi nell’accoglienza dei rifugiati afghani. I finanziamenti sono stati indirizzati ad agenzie onusiane (Unocha, Unhcr, Iom, Wfp, Unhas, Oms, Unicef, Unfpa) e ad altre organizzazioni internazionali (Icrc, Ifrc), operanti anche per il tramite di Ong nazionali ed internazionali. Alla successiva Conferenza dei donatori, tenutasi a marzo 2022, l’Italia ha annunciato un ulteriore stanziamento di 50 milioni di euro.
Tuttavia, il supporto non scioglie le restrizioni sempre più oppressive imposte dal regime talebano: l’Unione europea ha condannato la legge sulla “propagazione della virtù e la prevenzione del vizio” voluta dai talebani ed entrata in vigore lo scorso 21 agosto che, tra le altre cose, ha imposto non solo uno stretto codice di abbigliamento per le donne afghane – imponendo loro di non lasciare scoperta nessuna parte del proprio corpo o del proprio volto – ma anche il divieto di ascoltare la loro voce nel canto, nella recita o nella lettura in pubblico e, in generale, in ogni luogo che non sia un’abitazione privata. È fatto inoltre divieto alle donne di guardare direttamente uomini che non siano loro parenti o loro familiari, e viceversa.
In una nota dell’Alto rappresentante del blocco per la politica estera, Josep Borrell, si legge che tra i motivi di più forte preoccupazione per l’Ue c’è il fatto che «il decreto estende ulteriormente il potere del cosiddetto Ministero per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio al di là di un ruolo consultivo, poiché ora gli è stato conferito un chiaro mandato per far rispettare il decreto». Un aspetto decisivo che, continua il comunicato, «viola gli obblighi legali e i Trattati di cui l’Afghanistan è parte, anche minando il diritto del popolo afghano a un giusto processo». Le istituzioni europee esortano dunque le autorità di Kabul a «porre fine a questi abusi sistematici contro le donne e le ragazze afghane, che potrebbero configurare una persecuzione di genere, che è un crimine contro l’umanità secondo lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale» che l’Afghanistan ha ratificato. Finché persistono restrizioni di questo genere sulle ragazze e le donne afghane, affermano le Nazioni Unite, sarà virtualmente impossibile considerare i talebani come le autorità legittime del Paese dell’Asia centrale.
«Il governo italiano prenda posizione in modo ufficiale»: la richiesta delle associazioni al ministro Tajani
In Italia, una lettera congiunta di diverse associazioni impegnate per la parità di genere, esorta il ministro degli Esteri Antonio Tajani a prendere una posizione precisa e non creare presupposti per una normalizzazione di fatto dei rapporti con il regime talebano: «Chiediamo che l’Italia sottoscriva la dichiarazione rilasciata da Olanda, Germania, Australia e Canada il 25 settembre scorso, con il successivo sostegno di oltre venti Paesi, per condannare le gravi violazioni dei diritti umani poste in essere in Afghanistan dal regime talebano» si legge nella lettera. Le organizzazioni firmatarie hanno rilevato che, di fronte al sostanziale annientamento di una parte di popolazione afghana, fondato solo sull’appartenenza al genere femminile, «il governo italiano non possa tacere e debba agire in modo coordinato con i Paesi che già hanno intrapreso iniziative al riguardo».
L’apartheid delle donne in Afghanistan – hanno evidenziato le associazioni – colpisce tutte le donne del mondo, perché crea un clima culturale globale in cui, ogni giorno di più, viene alzata la soglia di tolleranza nei confronti di situazioni di discriminazione di genere che si sostanziano in veri crimini contro l’umanità: «È importante, dunque, che anche il governo italiano prenda posizione in modo ufficiale, anche mediante l’adesione ad azioni giudiziali a livello internazionale, contro l’oppressione creata dal regime talebano».
***
La newsletter di Alley Oop
Ogni venerdì mattina Alley Oop arriva nella tua casella mail con le novità, le storie e le notizie della settimana. Per iscrivervi cliccate qui.
Per scrivere alla redazione di Alley Oop l’indirizzo mail è alleyoop@ilsole24ore.com