Adam Grant, noto autore di libri di psicologia organizzativa, sintetizza periodicamente con dei tweet alcune verità “scabrose” della nostra realtà lavorativa. Sono verità scabrose perché sono sotto ai nostri occhi, sono pervasive come l’aria che respiriamo e al tempo stesso restano innominabili per la maggior parte del tempo: come nella fiaba di Andersen, infatti, nessuno vuole essere il primo a dire all’imperatore che è nudo.
Recentemente, le pillole di Grant vertono con particolare insistenza sul modo in cui la cultura aziendale guarda all’equilibrio vita-lavoro delle persone: sappiamo bene che, più o meno in contemporanea in tutto il mondo, quell’equilibrio già instabile è saltato del tutto con l’arrivo del covid, ma un’altra fase difficile la stiamo vivendo in questi mesi, in cui la spinta verso una presunta normalizzazione si sta presentando a molti come reazionaria, incontrando resistenze fisiche e psicologiche da parte dei più.
How soon should you leave a toxic workplace?
As soon as you can—and sooner than you think.
There's no amount of hazard pay that justifies feeling browbeaten and broken.
Not every job is a source of joy and meaning, but your work shouldn't cost you your health and well-being.
— Adam Grant (@AdamMGrant) September 8, 2022
Davvero dobbiamo tornare indietro, e considerarlo addirittura come un successo? Davvero vita e lavoro devono separarsi di nuovo e tornare a competere per il nostro tempo? Davvero quello pre-covid era l’assetto migliore possibile e, se è così, perché pochissimi ne sentono nostalgia?
Adam Grant lo sintetizza così:
“Nelle “burnout cultures”, le persone vengono giudicate in base ai sacrifici che fanno. Gli hobby, le vacanze e persino la famiglia sono visti come distrazioni da penalizzare.
Nelle culture sane, le persone vengono giudicate dagli impegni che mantengono. Gli interessi al di fuori del lavoro sono visti come passioni da celebrare”.
Le “burnout cultures” sono le “culture tossiche”, che producono l’esaurimento delle energie di chi vi lavora. In queste culture, nell’accettazione implicita del “si è sempre fatto così”, nulla è cambiato da quando il lavoro era prevalentemente operaio, e quindi basato sul tempo macchina. Le catene di montaggio si sono riempite di computer, ma gli orari e le modalità di interazione sono cambiati pochissimo e, se la rigidità del sistema ha penalizzato inizialmente solo le anomalie più evidenti – ovvero le donne che si congedavano per avere dei figli – oggi la disponibilità al sacrificio si è ridotta da parte di tutti, e infatti Grant cita la famiglia solo dopo gli hobby e le vacanze. Come è possibile che ogni aspetto non lavorativo delle nostre vite venga visto dal lavoro come un nemico?
Grant è uno psicologo e la sua capacità di dare nomi alle cose spinge a osservare con attenzione i termini che usa. Le culture tossiche – che evidentemente non sono sparite col covid ma sono rimaste sullo sfondo, in attesa di tornare in auge al primo segnale di restaurazione – provocano un vero e proprio burnout, ovvero esaurimento delle risorse. E’ dall’esaurimento mentale ed emotivo dei lavoratori che discendono fenomeni come le grandi dimissioni – per chi può – o il “quiet quitting”, ovvero il fare solo lo stretto indispensabile, e se possibile anche un po’ meno, da parte di chi invece non può o non vuole dimettersi. In tutti i casi intermedi, chi non “molla” si trova in mezzo a un conflitto tra diversi sacrifici, dovendo costantemente tirare la coperta da una parte o dall’altra, a beneficio di… nessuno.
Nelle culture aziendali che Grant definisce “sane”, invece, il conflitto si spegne e non occorre più combattere.
Avviene perché gli interessi extra lavorativi, da nemici si trasformano in alleati poiché generano passione. E la passione è all’esatto opposto del burnout: la passione riempie e alimenta, la passione arricchisce la dotazione di risorse delle persone. Nelle culture sane, quindi, non ci si ammala di lavoro, e non solo perché si indebolisce la narrazione del lavoro come sacrificio. Non ci si ammala anche perché persone che stanno meglio e hanno lo spazio per esercitare quell’istinto vitale che è per l’essere umano amare, riportano in azienda una quantità extra di energia e così facendo la “curano”.
Le aziende oggi hanno bisogno proprio di questa cura: hanno bisogno, per trasformarsi e competere nell’economia di questa epoca, di persone che amino quello che fanno e che si prendano cura con passione della cultura aziendale. Non servono infatti aziende “sane” per fare spazio alle passioni delle persone, ma persone che, anche grazie alle proprie passioni, dispongano delle risorse mentali ed emotive per rendere sane le proprie aziende.
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