Sempre più spesso le aziende mettono insieme le parole “diversità” e “inclusione”. Quante persone oggi hanno proprio il cappello di Responsabile diversity and inclusion? Questi due termini sono però antinomici, ovvero in aperta contraddizione tra di loro.
Di-verso è infatti ciò che diverte, “si volge altrove, si allontana”, mentre includere significa letteralmente “chiudere dentro” (claudere vuol proprio dire “chiudere”).
I responsabili di diversità e inclusione hanno quindi come oggetto del proprio lavoro quello di chiudere dentro i diversi?
In parte sì: lo sforzo infatti è quello di aprire una porta del recinto di senso dell’azienda per lasciar entrare ciò che altrimenti non entrerebbe: nuovi formati, nuovi modi di pensare, nuovi colori e orientamenti, nuove abilità. Se non si fa lo sforzo di modificare l’entrata, la diversità non accede ai sistemi esistenti, che fanno una durissima selezione all’ingresso. Il problema però sta proprio nel fatto che si vuole preservare la forma del recinto.
Se infatti la direzione è quella dell’inclusione, il diverso viene fatto entrare solo se è disposto a uniformarsi all’esistente, e quindi può essere incluso (chiuso dentro). Perdendo così la sua capacità di divergere, andare altrove.
Non si può includere la diversità: il movimento che andrebbe fatto per farle spazio è un altro.
Possiamo usare un’analogia con i concetti di “fixed mindset” e “growth mindset”. La mentalità fissa parte dall’assunto che “questa è la forma” e l’obiettivo è dimostrare che è quella giusta e farvi aderire tutti gli altri. Tutto ciò che la mette in discussione o cerca di cambiarla la mette in allarme, e questo le impedisce di evolvere e di crescere. La mentalità “growth” è invece in grado di crescere: non lo fa portando gli altri a sé, ma mettendosi continuamente in discussione con l’obiettivo di apprendere e modificarsi grazie alla realtà. ù
La mentalità growth è multiforme, in continua evoluzione. Di fronte a ciò che è diverso, non ha l’obiettivo di includere ma di aprirsi: sa ampliare i propri confini al punto da fare spazio anche a realtà che restano divergenti, e per questo arricchiscono il suo patrimonio di pensiero e di capacità.
Potremmo quindi proporre di cambiare il nome della funzione aziendale: da “Diversity and inclusion” a “Diversity and growth”. Diventerebbe la funzione preposta a individuare le opportunità che l’azienda ha di far crescere il proprio perimetro per annessioni (amichevoli!) di elementi diversi, invece che per inclusione degli stessi.
Non “chiudere dentro”, ma allargare.
Non aprire una porta, ma ridisegnare l’intero perimetro, in modo che trovino spazio elementi diversi, che possano continuare a essere tali: a muoversi in modo divergente, portando ricchezza e contrasti… e quindi valore aggiunto.