Quando si parla delle pari opportunità e dell’uguaglianza di genere nel mondo del lavoro la mente va quasi automaticamente alla Legge Golfo-Mosca del 2011, che ha introdotto le quote di genere nei consigli di amministrazione e nei collegi sindacali delle società quotate e delle società pubbliche (anche se per molti studiosi la parità di genere nelle società pubbliche derivava già direttamente dalla Costituzione). La Legge sta svolgendo il suo compito egregiamente, l’Italia ha fatto un balzo in avanti nelle classifiche internazionali, facendo così bella figura sulla strada della “modernità” e dimostrando così, se ancora ce n’era bisogno, che senza le quote i tempi per l’avvicinamento alla parità sono lunghissimi. Già, l’avvicinamento: perché il 30% non è parità, come sappiamo tutti, ma solo un proxi sfuocato. Ma è meglio di niente.
Poche settimane fa l’onorevole Cristina Rossello (FI) ha presentato alla Camera una proposta di legge, sostenuta da tutte le forze politiche, per la proroga della Legge Golfo-Mosca per ulteriori tre mandati. I segnali che si colgono nei consigli di amministrazione e tra gli azionisti, infatti, non sono positivi. La sensazione piuttosto diffusa che è allo scadere dei tre mandati imposti dalla Legge del 2011 moltissime società faranno un passo indietro, eliminando l’obbligo, senza dover modificare gli statuti: molti, infatti, nell’indicare l’obbligo del rispetto delle quote di genere, fanno riferimento al “rispetto della normativa vigente” e, di conseguenza, quando la normativa 2011 non sarà più in vigore, sarà possibile automaticamente tornare all’antico, o comunque ridurre la presenza femminile nei consigli e nei collegi.
In prevenzione si è mosso il Comitato per la corporate governance di Borsa Italiana, presieduto da Patrizia Grieco, che a luglio ha fatto un passo importante, introducendo nel Codice di autodisciplina un nuovo principio (2.P.4), che richiede l’applicazione di “criteri di diversità, anche di genere, nella composizione del consiglio di amministrazione, nel rispetto dell’obiettivo prioritario di assicurare adeguata competenza e professionalità dei suoi membri”. La diversità di genere, in questo modo, si inserisce nel quadro più generale della diversità come valore in sé, declinandola poi al Criterio 2.C.3 come una quota almeno pari a un terzo degli amministratori.
Se alcune società stanno già procedendo a modificare gli statuti nel senso indicato dal Codice, così separando le sorti dei loro organi apicali da quelle della Legge Golfo-Mosca, altre attendono che il movimento sia più significativo prima di accodarsi, che ci sia cioè una “massa” critica significativa di società che introducono la modifica suggerita tale da indicare un progresso collettivo piuttosto che singoli passi di volonterosi isolati.
Ma il Codice di autodisciplina fa un ulteriore passo avanti, non meno rilevante: nel commento allo stesso Principio, infatti, il Comitato per la corporate governance “auspica che gli emittenti adottino misure per promuovere la parità di trattamento e di opportunità tra i generi all’interno dell’intera organizzazione aziendale, monitorandone la concreta attuazione”. Si vuole così stimolare l’attenzione delle società quotate al rispetto delle pari opportunità in tutta la filiera organizzativa, dal basso verso l’alto, garantendo che per le donne l’ascensore verso le posizioni apicali del management salga più pieno di adesso.
Sembra strano che si debba parlare di queste cose ancora nel 2019, a più di 70 anni dalla Costituzione, che all’art. 3 indica tra i compiti della Repubblica la rimozione degli ostacoli “di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, e all’art. 37 riconosce alla donna “gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”; a più di 60 anni dal Trattato CEE, che all’art. 119 assicurava già nel 1957 la parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro; e a più di 40 anni dalla sentenza Defrenne della Corte di giustizia, che ne ha sancito la diretta applicabilità all’interno degli Stati membri, imponendo ai giudici nazionali di garantire questo diritto ai singoli cittadini, sia quando la discriminazione deriva da una legge nazionale o da un contratto collettivo di lavoro, sia in caso di diversa retribuzione di lavoratori di sesso femminile e di sesso maschile, se questi svolgono lo stesso lavoro e se lo svolgono nella stessa azienda o ufficio, pubblico o privato. Eppure, la parità di retribuzione è spesso un miraggio e soprattutto lo è la pari opportunità di accesso alle posizioni superiori.
Nel corso degli anni, infatti, il testo dell’art. 119 del Trattato CEE si è arricchito e ampliato, e la parità di retribuzione per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore è diventata una parte delle misure legislative volte ad assicurare l’applicazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e impiego. Inoltre, si è affermata, anche attraverso la giurisprudenza della Corte di giustizia e sulla scia delle affirmative actions statunitensi, la legittimità di misure che “prevedano vantaggi specifici diretti a facilitare l’esercizio di un’attività professionale da parte del sesso sottorappresentato ovvero a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali” (art. 157 TFUE), allo scopo di assicurare l’effettiva e completa parità tra uomini e donne nella vita lavorativa.
Nel corso degli anni, inoltre, la Commissione europea ha avviato numerose iniziative attraverso la DG Giustizia, dalla Carta per le donne del 2010 all’impegno strategico per l’uguaglianza di genere. Quest’ultimo, in particolare, è incentrato sui seguenti cinque settori prioritari:
• aumento della partecipazione delle donne al mercato del lavoro e pari indipendenza economica;
• riduzione del divario di genere in materia di retribuzioni, salari e pensioni e, di conseguenza, lotta contro la povertà tra le donne;
• promozione della parità tra donne e uomini nel processo decisionale;
• lotta contro la violenza di genere e protezione e sostegno a favore delle vittime;
• promozione della parità di genere e dei diritti delle donne in tutto il mondo.
Da parte sua, il Consiglio dell’Unione ha adottato il “Piano d’azione sulla parità di genere 2016-2020”, che sottolinea “la necessità di realizzare pienamente il godimento, pieno e paritario, di tutti i diritti umani e le libertà fondamentali da parte delle donne e delle ragazze e il conseguimento della loro emancipazione e della parità di genere”. Si è invece fermato il percorso di approvazione di una direttiva, proposta nel 2012, riguardante il miglioramento dell’equilibrio di genere fra gli amministratori senza incarichi esecutivi delle società quotate in borsa e relative misure, per raggiungere il 40% del genere meno rappresentato nei CDA delle società quotate europee.
Il quadro generale dovrebbe migliorare sensibilmente nei prossimi anni per le imprese di grandi dimensioni grazie all’obbligo di diffusione di informazioni non finanziarie (o meglio, non contabili), imposto dalla direttiva europea 2014/95. Tra le informazioni prescritte, infatti, figurano quelle relative alle politiche delle imprese a favore dell’uguaglianza di genere e dell’empowerment femminile (Obiettivo 5). Il Resoconto dell’Asvis mostra progressi in molte aree (http://asvis.it/goal5/home/389-3401/litalia-e-il-goal-5-progressi-nella-normativa-ma-troppi-ritardi-nellattuazione), ma molto è ancora da fare.
Da qualche parte dobbiamo quindi partire per costruire l’ascensore che può aiutare le donne a migliorare la loro posizione lavorativa e puntare alla piena parità soprattutto nella struttura dell’organizzazione delle imprese: quando i ruoli gestionali intermedi e apicali saranno occupati paritariamente da uomini e donne sarà più difficile sentir dire che la volontà di promuovere le donne ci sarebbe, ma che non c’è un numero sufficiente di candidate in grado di occupare le posizioni disponibili.
Vogliamo iniziare da un settore tradizionalmente considerato “difficile” per le donne, nel quale effettivamente la percentuale di donne nei quadri intermedi e nei ruoli dirigenziali è molto bassa un po’ ovunque? Penso al mondo della finanza, sul quale vi invito a rileggere la sintesi fatta da Monica D’Ascenzo al rapporto “Closing the Gap” di McKinsey. Il quadro è desolante sotto tutti i profili, retributivo, occupazionale, di carriera, di aspirazioni, e di conseguenza anche di motivazioni. C’è quindi molto da fare, ma anche molte soddisfazioni da cogliere sulla strada del miglioramento. In questo partiamo – o dovremmo partire – già un passo avanti. Infatti, la Direttiva 2013/36 su sull’accesso all’attività degli enti creditizi e sulla vigilanza prudenziale sugli enti creditizi e sulle imprese di investimento impone obblighi specifici agli enti creditizi non solo per quanto riguarda gli organi di gestione, ma in tutta la catena del management. L’art. 88 prevede infatti che il Comitato per le nomine, tra l’altro, “individua e raccomanda, ai fini dell’approvazione da parte dell’organo di gestione o ai fini dell’approvazione dell’assemblea generale, i candidati per l’occupazione di posti vacanti, valuta l’equilibrio di competenze, conoscenze, diversità ed esperienze dell’organo di gestione e redige una descrizione dei ruoli e delle capacità richieste per un determinato incarico e calcola l’impegno previsto in termini di tempo”.
Come di legge nei paragrafi introduttivi della Direttiva, il criterio della diversità non solo dovrebbe far parte dei criteri per la composizione degli organi di gestione, ma “dovrebbe essere applicato più in generale anche nell’ambito della politica degli enti in materia di assunzioni. Detta politica dovrebbe, ad esempio, incoraggiare gli enti a selezionare i candidati a partire da elenchi ristretti comprendenti entrambi i generi”.
Gli operatori del settore, quindi, sono già impegnati in questo senso, indipendentemente dai tempi e dai vincoli della Legge Golfo-Mosca, e anzi ben al di là di questa in termini di coinvolgimento di tutta la struttura organizzativa e non solo del CDA.
A questo fine, tra le molte iniziative possibili, mi sembra che possa essere copiata anche in Italia un’iniziativa del Ministero del Tesoro britannico, “Women in Finance Charter”, che potremmo tradurre come “Carta per la parità nella finanza” o “Carta delle donne in finanza” o “Parità di genere in Finanza”. Il progetto britannico, lanciato nel 2016, chiede alle imprese firmatarie di impegnarsi a implementare quattro azioni specifiche:
• individuare un dirigente responsabile a garante per la diversità di genere e l’inclusione;
• definire obiettivi interni per la diversità di genere nell’alta dirigenza;
• pubblicare, nei rapporti sull’attività aziendale, i progressi annuali rispetto a questi obiettivi;
• garantire che la retribuzione del gruppo dirigente sia collegata agli obiettivi di diversità di genere.
La Carta britannica è stata firmata da circa 300 operatori, britannici e stranieri, che si impegnano anche a comunicare i loro dati e i loro progressi al Ministero del Tesoro, che pubblica un rapporto annuale, nel quale valuta lo stato di raggiungimento degli obiettivi da parte dei firmatari, analizza le best practices e identifica le aree di possibile miglioramento.
Al di là dell’opportunità di sottoporsi alla valutazione di un governo di un altro Stato, credo che la promozione di un’analoga iniziativa nel nostro Paese, da parte degli stessi operatori attraverso le varie associazioni che li raggruppano e organizzano, fino a coinvolgere le massime autorità competenti, sia un segnale importante per tutte le donne che lavorano in queste imprese, per le giovani che si dedicano a studi specifici in queste materie e che non si avvicinano a questo settore proprio a causa della bassa percentuale di riuscita femminile. La previsione di difficoltà di carriera, infatti, è un elemento non secondario nella scelta del settore lavorativo, come mostrano i dati della partecipazione di candidate femmine a selezioni presso i vari operatori pubblici e privati.
Nel frattempo facciamo emergere i modelli, facciamo conoscere le donne che, nonostante l’assenza di “ascensori organizzati” e supportati, ce l’hanno fatta e ce la fanno quotidianamente, senza rinunciare ad altre parti, certo non meno importanti, della loro vita. Anche in questo ci aiuta un’importante iniziativa dell’Ambasciata britannica e di uno studio legale inglese, in collaborazione con Borsa Italiana, Corriere della Sera, La 27Ora e Finance Community, che si è svolta per la prima volta lo scorso anno. Si tratta dell’“Women in Finance – 2018 Italy Awards”, un premio al talento femminile e al valore della diversità di genere nel mondo della finanza.
Nel 2018 sono state premiate le categorie Employer of the Year, CFO of the Year, Banker of the Year, Financial adviser of the Year e Fund manager of the Year. Per il 2019, invece, le categorie in lizza sono CFO of the Year, Asset Manager of the Year, Banker of the Year, Insurer of the Year, Woman in FinTech of the Year e Champion of Diversity Employer. In attesa di iniziative italiane, il bando e le istruzioni sono disponibili al sito.