Il 40% del tempo dei manager viene assorbito da problemi quotidiani e attività amministrative. Solo il 13% è dedicato allo sviluppo del team. È quanto emerge da una recente indagine di Deloitte. Il risultato, è che tanti responsabili finiscono per sperimentare elevati livelli di stress e per sentirsi sopraffatti.
Ma non è solamente una questione di gestione del tempo. È una questione di senso. Il ruolo manageriale si sta infatti trasformando, spesso, tuttavia, senza una chiara cornice. Si chiede ai responsabili di essere coach, motivatori, innovatori e comunicatori, mantenendo al tempo stesso il focus sull’operatività. E così, molti di loro si trovano a galleggiare in un’identità frammentata, senza strumenti né supporto.
La crisi invisibile di chi guida
Sempre Deloitte, rivela che un manager su tre dichiara di non sentirsi preparato per gestire la componente relazionale del proprio ruolo. Dimensione che, di fatto, emerge come residuale all’interno di quella che è la distribuzione del proprio tempo lavorativo. Basti pensare che solamente il 13% di quest’ultimo è dedicato a sviluppare e far crescere il team.
Forse, non è allora un caso che ci si ritrovi con collaboratori demotivati, che però – nel 60% dei casi – si aspettano che l’azienda aumenti la loro motivazione. Peccato che solo un terzo di loro (33%) ritenga che le proprie motivazioni siano realmente comprese, sebbene il 78% affermi di conoscerle molto bene. Un cortocircuito buono solo ad alimentare la frustrazione.
Come può un manager motivare efficacemente, se è il primo che rischia di sentirsi in balia di un ruolo che, come anticipato, si sta espandendo senza una chiara direzione?
Prima di motivare, serve motivarsi
Prima di capire come i manager possano realmente motivare gli altri, forse bisognerebbe lavorare sulla motivazione di chi guida. Un buon manager può ispirare, ma solo se è ispirato. Può comprendere, se è compreso. Può motivare, se ha ben chiaro cosa dà senso al proprio ruolo e perché ha scelto – o accettato – di gestire persone.
Lo ha fatto per scelta consapevole? Per desiderio di supportare e stimolare la crescita di altri, accompagnarli, prendersene cura? O perché è l’unico modo per guadagnare di più, per avere un titolo, per non restare fermo? Non c’è una risposta giusta o sbagliata. Ma serve darsela.
Il punto non è formare i manager a essere più empatici, o più efficaci. Quanto piuttosto ridefinire cosa significa esserlo, e dare a questo ruolo un’identità sostenibile, motivante e desiderabile.
Un percorso possibile
Se si è manager, è utile cominciare a porsi determinate domande. Ad esempio: qual è oggi il peso delle attività relazionali nel mio lavoro? Quanto tempo reale dedico al mio team? Dove trovo energia, e dove invece la perdo?
Parallelamente, è necessario allenarsi al coraggio del limite. Non si può fare tutto. È utile chiarire le aspettative, con l’azienda e il proprio team.
Trovare la propria direzione, come manager, richiede tempo, consapevolezza e spazi di confronto.
Può essere utile investire in un percorso di coaching, così come dedicarsi a momenti strutturati di riflessione individuale – ne sono un esempio i leadership journal. Ancora, può essere efficace costruirsi una propria “comunità professionale”, ossia uno spazio in cui potersi confrontare tra pari e condividere dubbi, successi, fatiche. Troppo spesso, infatti, chi è manager vive in solitudine il proprio ruolo, avendo poche occasioni per mettere a sistema riflessioni e schemi d’azione.
Non esiste un unico modo di essere manager, ma esistono strade per esserlo in modo consapevole. E forse è da qui che si può cominciare.
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