Povertà, famiglie in affanno. E il futuro spaventa soprattutto le donne

Un italiano su due non è soddisfatto della propria condizione economica attuale e uno su tre non saprebbe far fronte a una spesa imprevista di 1.000 euro. È quanto emerge dalla ricerca condotta da Ipsos per Cesvi e Dixan sul sentimento degli italiani in relazione alla povertà, alla povertà di igiene e al futuro economico del Paese. Su un campione di popolazione italiana adulta, di età compresa tra i 18 e i 65 anni, un italiano su due si dice convinto che la propria situazione economica non possa migliorare, e il 77% pensa che il numero di famiglie in povertà sia aumentato rispetto al passato.

Di che cosa parliamo davvero, quando parliamo di povertà? Nel tessuto complesso della società, non c’è una sola definizione esaustiva per il concetto di povertà: occorre superare il mero confine del denaro per intrecciare il discorso con una serie di fattori sociali, economici e culturali. Povertà non è soltanto mancanza di risorse finanziarie, ma un vasto spettro di condizioni che influenzano profondamente la vita di milioni di individui in tutto il mondo. Parliamo di povertà assoluta quando ci riferiamo a un contesto in cui le persone lottano per soddisfare i bisogni fondamentali come il cibo e l’acqua, parliamo di povertà relativa quando esiste un divario economico rispetto alla media della società. Parliamo poi di povertà multidimensionale (l’indice Mpi delle Nazioni Unite è un esempio di misura che considera questi vari aspetti) per includere i diversi fattori che influenzano la qualità della vita.

Ogni forma di impoverimento porta con sé un carico di sfide interconnesse. È vero che la percezione individuale di essere poveri dipende dalle aspettative personali, dal contesto culturale, e che le persone possono pensarsi povere se  ritengono che il loro standard di vita sia inferiore rispetto a quello che considerano adeguato. Allo stesso tempo vi sono fattori che giocano un ruolo fondamentale nell’identificazione della povertà, come la disponibilità e l’accesso a servizi quali sanità, istruzione, trasporti pubblici, acqua potabile e igiene. Se questi servizi non risultano disponibili, la percezione di povertà può intensificarsi, anche se il reddito sembra essere sufficiente.

Una volta chiarita la multidimensionalità del concetto di povertà, è lecito chiedersi: quante sono le famiglie che vivono sotto la soglia di povertà in Italia? Dove si concentrano? Quali fattori incidono maggiormente sulla loro situazione?

Osservatorio sulla povertà

Nel 2022 erano in condizione di povertà assoluta poco più di 2,18 milioni di famiglie (8,3% del totale in crescita dal 7,7% nel 2021), secondo i dati Istat. Parliamo di oltre 5,6 milioni di individui (9,7% in crescita dal 9,1% nel 2021). Il peggioramento è imputabile in larga misura alla forte accelerazione dell’inflazione. La povertà assoluta è meno diffusa al Nord e al Centro rispetto al Mezzogiorno, dove famiglie e individui faticano maggiormente a soddisfare i bisogni essenziali.

Per le famiglie con tre o più figli minori l’incidenza arriva al 22,3% e, più in generale, per le coppie con tre o più figli al 20,7% mentre per le famiglie monogenitoriali è pari all’11,5%. Relativamente all’età della persona di riferimento, l’incidenza di povertà assoluta nelle tipologie familiari in cui è superiore ai 65 anni è più contenuta (4,6% per le coppie in cui la persona abbia 65 anni o più). Da evidenziare tuttavia che nelle famiglie con almeno un anziano si è registrato un peggioramento rispetto al 2021 (al 6,5%, dal 5,8%).

Sebbene i numeri siano in aumento, dalla ricerca Cesvi emerge che 2 italiani su 3 (64%) sovrastimano fortemente il numero di famiglie in povertà nel Paese. Se infatti oggi quelle che arrivano con difficoltà alla fine del mese sono circa il 10% del totale, il percepito è ben peggiore e tocca punte che vanno dall’11 a ben oltre il 30%.

Questa visione è ulteriormente peggiorativa considerato che oltre 7 rispondenti su 10 riportano una visione pessimistica del futuro. La causa principale di tale visione è il costo della vita: 1 rispondente su 3 dichiara una situazione di precarietà per la propria famiglia, che si sostanzia nell’impossibilità di affrontare spese straordinarie quali interventi dentistici o la sostituzione di un grande elettrodomestico.

Il futuro spaventa soprattutto le donne

Stessa visione anche quando si guarda al futuro: 2 italiani su 3 affermano che il Paese sta andando nella
direzione sbagliata e che in futuro le cose non hanno margine di miglioramento. Va annotato che disaggregando il 64% che ha espresso questa opinione, si scopre che è composto in larga parte da donne, 35-44enni e non occupati. Percentuali che non sorprendono viste le attuali condizioni del mercato lavorativo in Italia, dove solo una donna su due lavora, guadagnando in media il 10% in meno rispetto a un uomo e confermando così che, senza la possibilità di accedere a mezzi concreti per cambiare la propria situazione attuale, difficilmente si riuscirà a cambiare quella futura.

Alla domanda sulla soddisfazione relativa alla condizione economica del Paese a rispondere negativamente è il 76% degli intervistati, soprattutto donne, over 45 e non occupati.

Povertà di igiene: tra le conseguenze isolamento ed emarginazione

L’indagine ha messo a terra un focus anche sul tema della povertà di igiene, ovvero l’impossibilità di permettersi le spese relative all’igiene personale e dei propri indumenti. La percentuale di famiglie in condizione di povertà di igiene in Italia si attesta tra l’1% e il 10% della popolazione. Una condizione comune a molti italiani ma di cui si sa poco, a partire dalle conseguenze.

Sono 8 su 10 gli italiani che affermano di aver sentito parlare di povertà di igiene ma solo il 15%, specialmente i più giovani e sensibili alle tematiche sociali, dichiara di conoscere molto bene il tema. Uno su quattro sostiene di conoscere almeno una persona che si trova in povertà d’igiene nel proprio vicinato, 1 su 5 conosce una persona in tali condizioni che frequenta la stessa classe dei propri figli.

Visione negativa sul presente e sul futuro anche per la povertà di igiene: quasi 6 italiani su 10 (57%) affermano che il numero di famiglie in povertà di igiene sia aumentato o fortemente aumentato rispetto al passato e che la situazione non migliorerà in futuro. Il 45% dei rispondenti, infatti, stima che aumenterà o aumenterà fortemente nei prossimi anni il numero di famiglie che non potrà permettersi abiti puliti. Interrogati su chi sia maggiormente colpito dalla condizione di povertà di igiene, il 43% dei rispondenti identifica gli anziani come primissimi soggetti a rischio, seguono gli stranieri da Paesi in difficoltà (36%) i lavoratori precari (21%) e le famiglie molto numerose (19%).

Tra le principali conseguenze della povertà di igiene, vi è il rischio di isolamento ed emarginazione sociale, ma solo 1 italiano su 2 (51%) lo identifica correttamente, mentre solo 1 italiano su 3 (32%) prende in considerazione i problemi di salute che possono derivare dalla mancanza di igiene personale. Un dato riflesso anche nelle considerazioni relative alle condizioni dei bambini, alle quali però si aggiungono conseguenze dettate da fattori endogeni, come bullismo (32%) e conseguente mancanza di autostima (44%).

!La ricerca è il primo passo per evitare che il fenomeno della povertà di igiene rimanga sommerso e per portare alla ribalta un tema che è ancora considerato un tabù nel nostro Paese e del quale si prova disagio nel parlarne”, ha commentato Roberto Vignola, vice direttore generale e direttore raccolta fondi e comunicazione di Fondazione Cesvi. “Al contempo ci dà modo di approfondire gli effetti che la povertà di igiene può portare in termini di isolamento sociale e disturbi psicologici dei bambini e ragazzi colpiti”.

La normativa italiana per combattere la povertà

Quando il diritto alla salute e a una vita dignitosa è messo in discussione, è lecito chiedersi quanta consapevolezza c’è nella classe politica della situazione di abbandono e disagio che stanno sperimentando sempre più persone in Italia? Cosa si sta facendo per restituire la fiducia nel futuro a questi cittadini e cittadine?

Dopo la recente riforma del reddito di cittadinanza, le politiche contro la povertà in Italia sono entrate in una nuova fase, che possiamo considerare la terza. La prima fase è stata quella del reddito minimo di inserimento (1999-2003) e del sostegno per l’inclusione attiva (2014-2016): interventi mirati e sperimentali, di carattere temporaneo, rivolti esclusivamente ad alcuni profili di povertà o a specifici territori. La seconda fase è stata quella degli interventi più strutturali: il reddito d’inclusione (2017-2019), un sostegno per chiunque al di sotto di una determinata soglia economica di povertà, e il successivo reddito di cittadinanza (2019-2023).

Nel 2024 con l’introduzione dell’assegno d’inclusione è iniziata una nuova fase, segnata da un intervento strutturale di reddito minimo basato sul principio della categorialità familiare. In pratica il diritto a ricevere un sostegno non è più assicurato a tutti coloro i quali sono sotto una specifica soglia economica di povertà bensì solo ad alcuni tra questi, individuati in base alle caratteristiche della propria famiglia, in particolare la presenza di figli minori.

La riforma prevede il passaggio dal reddito di cittadinanza a due prestazioni: l’assegno d’inclusione, appunto, dedicato a individui in fasce di povertà in famiglie con minori, persone over 60 e persone con disabilità; il supporto per la formazione e il lavoro, non propriamente una misura contro la povertà, ma un aiuto temporaneo di 350 euro mensili fino a un massimo di 12 mesi, erogato a condizione che l’utente partecipi a corsi di formazione o progetti utili a collettività. Per queste misure sono stanziati circa 5,5 miliardi per il 2024 (il 19% della legge di bilancio) e 1,5 miliardi (5%) per il supporto formazione e lavoro.

La riforma del reddito di cittadinanza di fatto ha abolito il diritto di ogni cittadino – indipendentemente dalla sua età, condizione lavorativa o altro – a un sostegno per una vita dignitosa, un diritto riconosciuto e assicurato da tutti i Paesi europei, mentre l’Italia diventerà l’unico a non prevederlo più. A causa del passaggio dall’universalismo alla categorialità familista – segnala il rapporto – potrebbero aumentare le iniquità e le disuguaglianze tra diversi gruppi di persone, con conseguenze in termini di esclusione sociale. Il successo della riforma dipenderà dalla qualità delle politiche attive del lavoro e della formazione, dalla collaborazione con il settore privato, dall’equità nella distribuzione delle risorse e dalla capacità di adattarsi alle esigenze specifiche delle diverse aree del Paese. Un po’ troppe incognite, per un Paese già stremato e senza fiducia nel futuro.

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