Violenza, l’educazione affettiva a scuola non basta ma cominciamo da lì

Sono ore difficili quelle che seguono ad un epilogo tristemente annunciato. Giulia Cecchettin non c’è più, il filo sottile della speranza si è rotto dopo giorni di attesa, di angoscia, di notizie snocciolate e appelli disperati. Giulia è stata uccisa da un suo coetaneo.

Lo smarrimento ci unisce dal momento della scomparsa, “lo sapevamo tutte” è lo slogan più rilanciato sui social; si sovrappongono vortici di sentimenti, rabbia, sgomento, desiderio di giustizia per lei e per tutte le donne che hanno trovato la morte per la mano violenta degli uomini.

Il femminicidio è diventato un problema tristemente urgente, che ci chiama all’impegno di ricercare risoluzioni, o quanto meno, strumenti che possano aiutare le ragazze e le donne a riconoscere le cosiddette “red flags”, cioè i campanelli d’allarme che potrebbero precedere episodi violenti e strategie mirate a formare i ragazzi alla consapevolezza emotiva relazionale.

Tra scuola e famiglia

Da tempo si cerca di affrontare il problema violenza di genere, auspicando l’introduzione di educazione emotiva e sessuale nelle scuole di ogni ordine e grado, magari istituendo materie specifiche che possano puntare alla formazione dell’affettività di ragazzi e ragazze.

Continua, però, lento e inesorabile il depotenziamento delle famiglie non più intese come prime agenzie educative ma come semplici bed and breakfast. La scuola non può essere l’unica soluzione a una problematica complessa che abbraccia non solo gli ambiti socio-culturali, ma anche e soprattutto ambiti emotivi e affettivi.

Ogni giorno, in tutti gli ordini di scuola, si affrontano dinamiche affettive con valenze educative. La socialità e le relazioni sono al centro del percorso educativo ma poi, quei bambini e quelle bambine tornano a casa. E se in quelle case serpeggia un modello di rapporti di genere iniqui o peggio, si usa violenza verbale, psicologica o fisica, il futuro può essere ugualmente e tragicamente segnato perché è proprio nella famiglia che si impara ad amare, a gestire le frustrazioni, a osservare le relazioni sociali e amorose. I primi riferimenti adulti sono le figure genitoriali e nei primissimi anni di vita si delineano i modelli di comportamento che influenzano la crescita emotiva.

Su che fronti agire?

Cosa fare allora? Il tema della violenza di genere e del femmincidio è complesso e multifattoriale. Certamente, le istituzioni educative non possono sottrarsi all’urgenza di creare maggiori momenti di dibattito, di riflessione, che possano incidere sulla formazione psicologica e emotiva dei giovani. L’ora di lezione non basta, i ragazzi e le ragazze non ne possono più di sentirci parlare, tantomeno risulterebbe efficace l’introduzione di ore aggiuntive di nuove materie.

L’affettività deve affiancare ogni azione educativa e persino didattica. L’efficacia dell’apprendimento passa proprio da qui, dai sentimenti. Ogni atto educativo deve essere intriso di emotività.

C’è, però, bisogno di ascolto, di puntare al benessere psicologico, alla cura della salute mentale. Il benessere psicologico è spesso un grande pensiero rimosso dal campo della formazione dei ragazzi e delle ragazze. Occorre istituire sportelli di aiuto gratuito in tutte le scuole, accessibili a famiglie, studenti e studentesse, dove poter individuare precocemente i segnali di malessere e curare disagi o comportamenti disfunzionali attraverso la collaborazione di psicologi specializzati. L’Università di Bari “Aldo Moro” , ad esempio, ha istituito un bonus psicologo di trecento euro destinato a studenti e studentesse; ecco, può essere un inizio.

Formazione non stereotipata

La violenza di genere viene alimentata generalmente da una cultura, spesso sommessa e taciuta, che riporta alla visione della donna come essere fragile e sottomesso all’uomo. L’educazione, in questo senso, può essere la via per convogliare la formazione di pensieri non stereotipati, non pregiudiziali, per alimentare nelle donne la consapevolezza dell’importanza dell’autodeterminazione e autoaffermazione e nei giovani ragazzi la consapevolezza dell’importanza di emanciparsi dal sottotesto culturale e sociale derivante dagli anni passati e da una intrinseca e inconsapevole eredità machista.

Una cosa è certa, il tema del femminicidio e della violenza di genere non può essere avulso dal contesto di crescita, non si può immaginare di deresponsabilizzare la famiglia da ogni decisione e dalle relative conseguenze; non si può pensare di depotenziare l’aspetto intrinseco del reato di femminicidio, che riporta allo stato della salute mentale della persona che mette in atto un comportamento violento. Prevenire significa individuare precocemente i segnali di instabilità psicologica, anche transitoria, dei ragazzi, per poter mettere in atto strategie di contenimento e cura.

Spesso le situazioni non appaiono gravi, fino a quando l’epilogo tragico non si palesa nella sua drammaticità; non sempre si hanno i giusti strumenti per definire i segnali premonitori che, generalmente, sono sempre presenti e più o meno mascherati.

Per questo, si auspica un intervento istituzionale che garantisca la presenza di personale qualificato nelle scuole, sportelli e punti di ascolto psicologico per educatori, famiglie e ragazzi, gratuiti.

La morte di Giulia non può e non deve suscitare solo rassegnazione. Lo sapevamo tutte, è vero. E proprio per questo l’impegno per tenere accesi i riflettori sul tema del femminicidio, deve essere ancora più forte.
Non una di meno.

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