L’ondata di dolore, angoscia e rabbia provocata dal barbaro femminicidio di Giulia Cecchettin, 22 anni, da parte del suo ex fidanzato, Filippo Turetta, arrestato in Germania, finirà. Finirà, come è finita quella provocata dal femminicidio di un’altra Giulia, Giulia Tramontano, 29 anni, incinta al settimo mese, massacrata nel maggio scorso con 37 coltellate da Alessandro Impagnatiello, che sarà processato a gennaio. Finirà, come è finita quella per la violenza sessuale di gruppo subita a Palermo da una 19enne nella notte tra il 6 e il 7 luglio scorso.
Finirà probabilmente dopo questa settimana, in cui cade il 25 novembre, la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, in cui faremo i conti delle donne ammazzate nell’ultimo anno, valuteremo il trend rispetto agli anni precedenti, ascolteremo interviste, interventi a convegni, opinioni autorevoli, saremo pronti a schierarci sui social contro questa o quell’altra opinione. L’ondata finirà e torneremo ad occuparci di altro, forse dimenticheremo o metteremo da parte questi pensieri, cosa che non faranno mai più le famiglie delle donne e delle ragazze uccise o stuprate.
84 donne uccise in ambito familiare
Oppure no, oppure questa morte assurda e inaccettabile servirà a mettere un altro tassello in una battaglia che, ad oggi, stiamo perdendo. Servirà a farci capire che le morti non si fermano solo con le pene più severe o con il braccialetto elettronico, che il femminicidio di Giulia Cecchettin e quelli delle altre 83 donne uccise in ambito familiare e affettivo in questo 2023 dipendono da noi, da quello che facciamo ogni giorno, dall’educazione che diamo ai nostri figli e alle nostre figlie, dalle.parole che usiamo, da quelle con cui desciviamo la realtà, da come raccontiamo e testimoniamo l’amore e la relazione, dalle nostre scelte.
“Sei mia”
La primitiva dinamica di possesso che è emersa nella relazione tra Giulia Cecchettin e il suo assassino è una cifra fin troppo frequente delle relazioni tra i più giovani, che nulla ha a che fare con l’amore e che molto ha a che fare con il potere: è il “sei mia” e in quanto tale non hai diritto di avere desideri o aspirazioni che vadano oltre me, interessi che non riguardino me. In quanto donna, vivi in funzione di ciò che io sono e io desidero, perché così grande è il mio amore che a te ci penso io, io so cosa è meglio per te.
E no, non è accettabile un passo avanti da parte tua, un passo di lato, un passo che sia altro da quello che io mi aspetto. Malattia mentale? Devianza del singolo? Assolutamente no. Siamo di fronte a quello che la nostra cultura ci insegna ogni giorno, sin da piccoli, ancora oggi: la donna in funzione dell’uomo, sempre un passo indietro. “Auguri e figli maschi“, se ci pensate, non è così lontano da noi, anche se non lo diciamo più ad alta voce. Nelle relazioni che vediamo tra adolescenti è frequente che in una coppia si condividano le password dei social così ci si controlla meglio, in cui capita di sentire che “non vuole che esca con le mie amiche, sai è geloso” come se fosse normale e anche tutto sommato giusto, perché “così è l’amore“.
E’ stato “il bravo ragazzo”
Non solo. Abbiamo letto che l’assassino di Giulia Cecchettin “era un bravo ragazzo“. L’empatia nei confronti dell’uomo che ammazza perché soffre è una caratteristica tipica dei femminicidi e delle violenze contro le donne, non si riscontra in nessun altro tipo di reato. Era un bravo ragazzo, dunque. E allora chiediamoci: cos’è un bravo ragazzo per noi? Qual è il modello? E’ uno che studia, che si impegna, che ha una fidanzata. E’ uno che lavora, che vuole farsi una famiglia, che non ha grilli per la testa. Certo, se poi ossessiona quella fidanzata, la stalkerizza, ritiene di avere un diritto su di lei, se lei lo ha lasciato e lui “non accetta la separazione” (ed ecco che empatizziamo con lui, che soffre, lui) e la ammazza brutalmente, in maniera atroce e primitiva, resta un bravo ragazzo, che soffre. Che non ce l’ha fatta.
Il diritto di esistere
E’ così che rendiamo normale ogni giorno quello che normale non può e non deve più essere, che una donna viene uccisa perché in quel ruolo lì non ci vuole stare, è così che una ragazza di 22 anni non c’è più, da un giorno all’altro. Le è stato tolto il diritto di scegliere chi essere, cosa fare, se soffrire o gioire, con chi passare il tuo tempo, come passarlo, il diritto stesso di essere, di esistere, tutto. Le è stato tolto tutto, in quanto donna. A lei e alle altre 83 da inizio anno, più di 100 l’anno scorso. E’ così, con questa mentalità intrisa di patriarcato e di maschilità tossica che un bravo ragazzo e un brutale assassino sono la stessa persona, mentre Giulia non c’è più.
La normalizzazione del male
Ecco, questa normalizzazione della disparità, della dinamica di supremazia e di controllo è quella su cui abbiamo un potere, tutti e tutte, ogni giorno. E se è vero che serve, è urgente e manca un’azione politica forte di prevenzione ed educazione, un movimento culturale capillare e profondo che riesca a scardinare l’idea che le donne abbiano meno diritti, in quanto donne, il cambiamento deve partire anche dal basso, deve essere visibile in ogni famiglia, in ogni indviduo, con i nostri figli e le nostre figlie (perché sì, la cultura patriarcale pervade anche noi donne) con una lente sui nostri pensieri, comportamenti e azioni che ci porti a chiedere, tutti i giorni e più volte al giorno, cosa sto facendo perché questo non accada più?
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Se stai subendo stalking, violenza verbale o psicologica, violenza fisica puoi chiamare per avere aiuto o anche solo per chiedere un consiglio il 1522 (il numero è gratuito anche dai cellulari). Se preferisci, puoi chattare con le operatrici direttamente da qui.
Puoi rivolgerti a uno dei numerosi centri antiviolenza sul territorio nazionale, dove potrai trovare ascolto, consigli pratici e una rete di supporto concreto. La lista dei centri aderenti alla rete D.i.Re è qui.
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