Violenza sulle donne, asse università-giornalisti: nasce l’Osservatorio Step

Lei viene uccisa, ma lui è dipinto come “il gigante buono”. Lei è morta, ma “lo aveva provocato”. Lei viene accoltellata, ma lui “veniva trattato come un cane”.  Lui la aggredisce, ma l’episodio diventa “una lite coniugale”. Il racconto mediatico della violenza di genere può trasformarsi in una galleria degli orrori. Per contrastare le distorsioni e le narrazioni tossiche l’accademia e la stampa uniscono le forze. È stato battezzato il 26 ottobre con un evento nella Capitale il nuovo Osservatorio Step “contro la violenza del linguaggio sulle donne”, frutto di un accordo non oneroso di collaborazione scientifica tra il Dipartimento dei psicologia dei processi di sviluppo e socializzazione della Sapienza Università di Roma diretto da Fiorenzo Laghi, le Commissioni pari opportunità di Federazione nazionale della stampa, Ordine dei giornalisti e Usigrai, Giulia (Giornaliste unite libere autonome) e il Dipartimento di economia, ingegneria, società e impresa dell’Università della Tuscia.

Dal progetto Step al monitoraggio quotidiano

L’Osservatorio, nazionale e indipendente, è il fertile prosieguo del progetto Step “Stereotipo e pregiudizio. Per un cambiamento culturale nella rappresentazione di genere in ambito giudiziario, nelle forze dell’ordine e nel racconto dei media”, nell’ambito del quale erano stati analizzati 16.715 articoli di quotidiani dal 2017 al 2019 e 250 sentenze. Capofila della ricerca, oggi come allora, Flaminia Saccà, professoressa ordinaria di sociologia dei fenomeni politici alla Sapienza.

“Da quello studio – ha spiegato – era già emerso come la rappresentazione sociale della violenza sia sulla stampa che nei media, fino alle aule dei tribunali, sia caratterizzata dalla presenza strutturale di pregiudizi e stereotipi ricorrenti, con il risultato di una narrazione che rende la donna vittima tre volte: della violenza subita. della rappresentazione colpevole che di lei dà la stampa e non di rado l’ambito giudiziario, di una giustizia che troppo spesso viene depotenziata da questa narrazione distorta”.

“Himpathy”, l’empatia che si sposta dalle donne ai maltrattanti

C’è un termine perfetto, coniato dalla filosofa Kate Manne nel 2018, per descrivere ciò che accade: “himpathy”, il flusso di empatia “che viene rimosso dalle donne vittime di violenza per spostarlo e indirizzarlo verso i loro uomini maltrattanti”. Sui media – ha continuato Saccà – si traduce in “una narrazione in soggettiva, dalla prospettiva maschile, del maltrattante”. Attraverso vari meccanismi, come omettere di definire in maniera chiara chi è la vittima e chi il responsabile della violenza o mancare di sottolineare la gravità dei reati commessi.

La word cloud costruita sulla base di tutti gli articoli analizzati non lascia adito a dubbi: le parole più ricorrenti sono “donne”, “violenza”, “donna”, “moglie”. In piccolo compaiono “uomo”, “marito”, “uomini”. L’autore del crimine scompare. Sul banco degli imputati, nel racconto, finisce lei.

La piaga della violenza “culturalmente accettabile”

Come si spiega questo incredibile ribaltamento di prospettiva? Saccà ha usato l’esempio citato dal professor Michael Kimmel, sociologo americano specializzato in gender studies: “Immaginate un uomo che viene licenziato in tronco e che magari agisce sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. Che cosa è più probabile che faccia? Che spacchi la faccia al suo datore di lavoro o che torni a casa e massacri la moglie? Sicuramente la seconda. Il motivo è che è culturalmente accettabile”.

Lo ha evidenziato Luca Massidda dell’Università della Tuscia, parte del team di ricerca, mostrando come nel racconto mediatico della violenza si intreccino pregiudizi di ruolo e di cornice: da un lato la tendenza a confinare il maltrattante e l’assassino nelle tre categorie del “brav’uomo”, del “mostro” o dell'”estraneo”, dall’altro ricorrendo a “narrative esoneranti”, quelle che derubricano la violenza, appunto, a lite familiare, gelosia o raptus. In tutti i casi, “si costringe ad assumere il punto di vista del maltrattante, come dimostrano i numerosi virgolettati riportati sulla stampa, sempre molto simili: ‘Ho perso il controllo’, ‘È stato un incidente'”.

L’esigenza di un monitoraggio esperto

L’Osservatorio – costituito da una cabina di regia e da un comitato scientifico-professionale di cui è componente anche Alley Oop – punta ad accreditarsi come uno strumento di monitoraggio esperto quotidiano del racconto giornalistico della violenza di genere: sotto la lente finiranno le edizioni a stampa dei principali quotidiani nazionali e delle testate locali più rappresentative. In occasione dei casi più significativi rilevati o segnalati dalle professioniste volontarie degli enti e delle associazioni coinvolte, il gruppo di ricerca attiverà un’estensione qualitativa del campo di analisi al sistema dell’informazione televisiva e dell’infosfera digitale e social.

A benedire l’iniziativa, con un videomessaggio, la rettrice della Sapienza, Antonella Polimeni, che ha riepilogato le molteplici iniziative dell’ateneo romano per la parità: “Concepiamo l’Università come comunità educante fondata sul principio di uguaglianza contro ogni tipo di discriminazione e di violenza”.

Il primo case study

Il vantaggio di poter disporre di un monitoraggio in tempo reale dell’informazione in tema di violenza contro le donne è stato provato dal primo case study esaminato, relativo alla rappresentazione giornalistica del caso “La Russa jr” e illustrato da Rosalba Belmonte, ricercatrice under 40 all’Università della Tuscia e vincitrice di uno dei due progetti Prin sulle cui gambe poggia l’Osservatorio. Tante le cattive pratiche rilevate dall’esame di 229 articoli di 14 quotidiani nazionali, come quella di usare le parole “violenza” e “sesso” in modo interscambiabile e di utilizzare l’assunzione di droga da parte della ragazza come un dispositivo rivittimizzante.

Il giornalismo e il cambiamento agito, non solo invocato

Fabrizia Giuliani, docente di filosofia del linguaggio e studi di genere alla Sapienza, è stata netta: “Responsabilità è la parola chiave non solo nell’azione di contrasto alla violenza, ma anche per ciò che tocca il piano della prevenzione. Il cambiamento non si invoca soltanto, ma si agisce”. I giornalisti sembrano averne preso coscienza. “La presenza qui oggi dei vertici delle organizzazioni professionali e sindacali della categoria testimonia la massima attenzione al tema”, hanno affermato Guido D’Ubaldo, presidente dell’Ordine dei giornalisti del Lazio, e Paola Spadari, segretaria dell’Ordine nazionale. Che ha aggiunto: “Le problematiche complesse si risolvono facendo rete, e noi la rete la abbiamo costruita. Non ci fermeremo”.

A tessere le alleanze è stata con pazienza Silvia Garambois, presidente di Giulia, che ha voluto rimarcare il passaggio fondamentale: “Aver unito due linguaggi molto diversi: quello dell’accademia e quello del giornalismo”. In nome della Costituzione, che all’articolo 21 “ci obbliga a fare non informazione, ma buona informazione”. Va in direzione contraria la ridda di dichiarazioni dei maltrattanti che spesso diventano titoli sui giornali: “Con i virgolettati ci laviamo la coscienza: ‘Lo ha detto lui’ diventa l’alibi”.

L’importanza delle parole giuste e della buona informazione

“Il lavoro dell’Osservatorio va a beneficio dell’informazione e il rischio di un ritorno al passato nel linguaggio esiste”, ha avvertito nel suo appassionato intervento Vittorio Di Trapani, presidente della Fnsi, il sindacato dei giornalisti italiani. Di Trapani si è rivolto direttamente alle tante studentesse e studenti presenti in Aula: “Quando chiedete un linguaggio rispettoso della parità di genere e vi rispondono evocando la presunta dittatura del politicamente corretto, voi rispondete che la preferite alla dittatura del grammaticamente scorretto. La cultura si cambia anche con le parole”.

Un concetto ricorrente nelle testimonianze delle giornaliste presenti, moderate da Alberto Marinelli, direttore del Dipartimento Coris della Sapienza: Mara Pedrabissi, presidente della Commissione pari opportunità della Fnsi, Elisabetta Cosci, coordinatrice della Cpo dell’Ordine dei giornalisti, Roberta Balzotti, coordinatrice Cpo Usigrai e Alessandra Mancuso, della Cpo Fnsi.

Se le donne stanno bene, tutti stanno meglio

A rappresentare l’urgenza non solo nazionale di maggiore consapevolezza nella categoria è stata Mimma Caligaris, rappresentante italiana dell’International Federation of Journalists. Anche lei ha elogiato, come documento apripista contro le narrazioni tossiche, il Manifesto di Venezia per il rispetto e la parità di genere nell’informazione siglato da Fnsi, Usigrai e Giulia nel 2017, i cui contenuti sono stati mutuati nella guida Unesco “Reporting on violence against women and girls” curata da Anne-Marie Impe.

“Un Manifesto, non una Carta – ha osservato Caligaris – perché deve servire a fare formazione e cultura. Bisogna smettere di viverlo come una critica”. Perché la libertà di stampa non deve tradursi in distorsione della realtà, per giunta altamente nociva per le donne in uscita dalla violenza, indebolite dai messaggi diffusi di rivittimizzazione. Pedrabissi ha usato una metafora calzante: quella delle rose sentinelle nei vigneti, piante “spia” che manifestano prima della vite l’attacco di parassiti e malattie: “La condizione femminile è come quelle rose: ci segnala il livello di benessere di una comunità”. Lo diceva il Nobel per l’Economia Amartya Sen: “Quando le donne stanno bene, tutto il mondo sta meglio”.

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