Due anni fa i talebani, un movimento fondamentalista islamico sunnita, sono tornati al potere in Afghanistan. Il 15 agosto 2021 i combattenti entrarono nella capitale e il governo ufficiale crollò. Da allora, chi è rimasto nel Paese ha assistito a una regressione nei diritti civili e all’inversione nelle conquiste liberali e democratiche degli ultimi 20 anni.
Sotto il dominio talebano, per donne e ragazze è difficile muoversi liberamente fuori da casa. Se non fidanzate ufficialmente, rischiano di essere rapite e date in sposa ai combattenti. Le ragazze sono state escluse dalle scuole secondarie. Le donne sono tenute a coprire i loro volti in pubblico e non possono percorrere distanze significative in assenza del loro mahram, un tutore maschio. Vietati i contraccettivi. Chiusi i saloni di bellezza. In breve, ogni dimensione della vita di donne e ragazze è stata soffocata.
“La vita delle donne afgane è cambiata completamente con una interpretazione ultra-rigorista della sharia”, spiega ad Alley Oop Simona Lanzoni, vicepresidente di Fondazione Pangea Onlus. “C’è la volontà – aggiunge – di far sapere che le donne devono sottostare a un regime limitato e differente rispetto agli uomini, perché il loro compito principale è riproduttivo, all’interno della famiglia”.
Cittadine di serie B
“Negli ultimi 22 mesi, ogni aspetto della vita delle donne e delle ragazze è stato limitato. Sono discriminate in ogni modo“, aveva dichiarato il vice alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Nada Al-Nashif il 19 giugno. L’Afghanistan del 2023 rimane infatti l’unico Paese in cui donne e adolescenti non hanno accesso all’istruzione, all’occupazione e alla libertà di movimento. Anche gli indici internazionali danno un quadro di forte declino nei diritti.
Secondo il Global Gender Gap Report 2023, che confronta lo stato attuale e l’evoluzione della parità di genere a livello internazionale, l’Afghanistan è in fondo alla classifica con un punteggio generale al 40,5%. Ultimo su 146 paesi, guadagnandosi la reputazione di peggior Paese al mondo in termini di parità di genere. Ha la performance più bassa in tutti i sotto-indici, ad eccezione di salute e sopravvivenza, dove si colloca al 141° posto, ed è l’unico il cui punteggio di parità di genere nell’istruzione è inferiore al 50% (48,2%).
L’Afghanistan è infatti l’unico al mondo con divieti sull’istruzione femminile: i talebani hanno bandito le donne dalle università lo scorso dicembre mentre alle ragazze era stato proibito di andare a scuola oltre la sesta elementare subito dopo il ritorno al potere, nell’agosto 2021.
Bandite dal mondo dell’istruzione, ma anche escluse dal mercato del lavoro. Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, i livelli di occupazione femminile sono diminuiti drasticamente da quando l’amministrazione talebana ha assunto il potere 2 anni fa. Secondo gli ultimi dati, diffusi nel rapporto L’occupazione in Afghanistan nel 2022: una rapida valutazione d’impatto, nel quarto trimestre del 2022 si stima che l’occupazione femminile sia diminuita del 25% rispetto al secondo trimestre del 2021 e il lavoro autonomo a domicilio sia diventata la forma predominante di partecipazione al mercato del lavoro.
Gli ultimi 2 anni sono segnati da un vero e proprio “apartheid di genere”, spiega Lanzoni, dove “le donne non sono considerate eguali agli uomini”. Le preoccupazioni della vicepresidente di Fondazione Pangea Onlus fanno eco al commento degli esperti delle Nazioni Unite che, presentando un report al Consiglio lo scorso giugno, dichiararono che “la grave, sistematica e istituzionalizzata discriminazione contro le donne e le ragazze al centro dell’ideologia e del governo talebano, solleva anche preoccupazioni sul fatto che possano essere responsabili di apartheid di genere“.
Gli ultimi divieti: musica e saloni di bellezza messi al bando
A pochi giorni dal secondo anniversario della presa del potere, 2 nuovi editti hanno colpito la libertà di espressione. Il primo colpisce la musica che causerebbe “corruzione della morale” e ha portato a roghi di strumenti musicali. A luglio è stata invece decisa la messa al bando dei saloni di bellezza con la revoca, a circa 3mila saloni di Kabul, della licenza questo mese. Tali attività erano tra le poche a predominanza femminile rimaste nel Paese e in cui le imprenditrici assumevano altre donne. Fornivano degli spazi sicuri per incontrarsi e rappresentavano, in alcuni casi, l’unica fonte di reddito per molte famiglie. La loro chiusura porterà alla perdita di 60mila posti di lavoro, stima la camera di commercio afghana. “Sembra che i talebani non abbiano alcun piano politico se non quello di concentrarsi sui corpi delle donne”, è stato il commento alla notizia di una donna afghana alla Bbc.
La resistenza civile: le donne continuano a lottare
Le donne hanno risposto alle crescenti restrizioni alla loro vita quotidiana protestando. Le manifestazioni sono quasi raddoppiate nel 2022 rispetto al 2021, secondo il progetto di mappatura dati Armed Conflict Location & Event Data Project (Acled). Mentre nei primi 6 mesi del 2023 se ne contano oltre 60 con donne presenti. A luglio, subito dopo l’annuncio del governo di chiudere i saloni di bellezza femminili, decine di lavoratrici sono scese in piazza intenzionate a raggiungere la missione delle Nazioni Unite. La manifestazione però è stata dispersa usando idranti, pistole stordenti e colpi in aria. Sempre secondo Acled, infatti, è più probabile che le manifestazioni di e con donne incontrino l’intervento dei talebani rispetto a quelle senza.
“Nei 20 anni prima del ritorno del regime, le donne erano riuscite a occupare degli spazi in ogni ambito della vita. Ora questi spazi si sono ristretti enormemente ed è un problema: perché quando fermi le donne, blocchi la società” dice Lanzoni. La grande differenza tra oggi e il regime di 20 anni fa però è che “ora c’è internet, questo permette alle persone di restare collegate con il resto del mondo e non perdere la speranza”.
Riconoscimento internazionale
Nessun governo straniero ha finora formalmente riconosciuto il regime talebano ma “a tendere si andrà in quella direzione”, dice Lanzoni con rammarico. Aggiungendo: “l’idea è che, riconoscendoli, i talebani si debbano adeguare a certi standard. In realtà è la narrazione che continua a essere sbagliata: significa legittimare l’idea che le donne siano subordinate, dando un esempio negativo a tutti gli altri Paesi”.
Il 17 aprile la vicesegretaria generale dell’Onu, Amina Mohammed, in un incontro all’Università di Princeton parlò della possibilità di fare “piccoli passi” verso un eventuale “riconoscimento di principio” dei talebani, benché ciò dipenda da una serie di condizioni. Stati Uniti e i Paesi europei insistono sul rispetto dei diritti umani come base per qualsiasi dialogo. Nel giugno scorso, in risposta a una richiesta dei talebani per il riconoscimento alle Nazioni Unite, l’inviato in Afghanistan Roza Otunbayeva affermò che è “quasi impossibile” finché saranno mantenute leggi restrittive su donne e ragazze.
La questione però non è solo diplomatica: da essa dipende la gestione degli aiuti esteri e il possibile sblocco di riserve finanziarie afghane fuori dal Paese.
Non lasciamole sole
Fondazione Pangea Onlus opera a Kabul dal 2003 e in 18 anni, con il Progetto Jamila, Pangea ha coinvolto più di 7mila donne nei programmi in Afghanistan. “Noi ci siamo: con la distribuzione di cibo, che continua a essere una grande emergenza, con la scuola per bambine e bambini sordi, che abbiamo fatto riaprire”. In conclusione: “ci stiamo attivando per trovare le modalità giuste affinché le nostre attività per le famiglie includano le donne al meglio rispetto alle regole locali”.
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