Mollo, ma non mi arrendo: il coraggio che serve per cambiare strada

Si è dimessa la Prima Ministra Jacinda Ardern, a capo del Governo della Nuova Zelanda dal 2017 e modello di leadership per molti: gentile, autentica, forte, diventata madre durante il mandato. Nel video in cui annuncia le sue dimissioni, dice di “non avere più benzina nel serbatoio” per una responsabilità così grande, e aggiunge che “i politici sono esseri umani”, a un certo punto possono non farcela più. Non tanto ad esserci, quanto ad esserci nel modo giusto, e infatti conclude dicendo:

“Spero di andare via lasciando la consapevolezza che si possa essere gentili e forti, che si possa essere un leader a modo proprio: un leader che sa quando è il momento di lasciare.”

Una leadership che fa delle scelte

Che cosa vuol dire essere leader a proprio modo e, per questo, scegliere di dimettersi da un ruolo di potere? La scelta di fare quello che in inglese si chiama “downshift”, un cambiamento verso il basso, è un argomento comune in questo periodo: mette insieme la stanchezza profonda percepita da molti, la ricerca di un senso, l’esaurimento delle risorse mentali e la voglia di fare scelte nuove – bisogni che in ambito lavorativo possono tradursi nelle grandi dimissioni, ma anche in un quiet quitting.

Chi infatti resta, pur sapendo di non poter o voler più dare molto, fa un silenzioso e segreto downshifting, accettando di far circolare meno energia. Ed è questo che la Prima Ministra ha rifiutato, mentre dall’altra parte ha fatto una scelta forte, sottolineata durante la conferenza stampa da un movimento intenso del corpo, che ha ondeggiato a destra e sinistra mentre diceva:

“Sono anche un essere umano: in futuro sarò a casa quando mia figlia tornerà da scuola, e magari mi sposerò”.

Se è lecito persino per un capo di governo avere desideri diversi, e per questo “mollare” – ma non mollare in assoluto: mollare ciò che si è fatto fino a un momento prima – non lo è altrettanto per ognuno di noi?

Ne parla proprio in questi giorni un articolo dell’Harvard Business Review che si intitola “Come fare pace con la sensazione di essere meno ambiziosi”: al sentimento di malessere che in molti stanno provando post pandemia, racconta l’autrice, corrisponde la percezione di un’ambivalenza di fronte al pensiero di rinunciare a ciò che il resto del mondo chiama “successo”.

“Tradire” il sogno del successo a tutti i costi

Successo vuol dire andare sempre avanti, facendo e ottenendo sempre di più, dimostrandosi sempre più bravi e più forti, sempre di più. Per una convenzione implicita, nella cultura occidentale più è meglio di meno, grande è meglio di piccolo, crescere è meglio di ridursi. Queste “metafore di vita quotidiana” (citando il libro di George Lakoff e Mark Johnson) hanno origine dalla nostra preistoria, quando una preda grande dava più cibo di una piccola, e i cacciatori veloci avevano più successo di quelli lenti. Il mondo è cambiato, ma le metafore no, e così scoprirsi un’ambizione minore ci fa sentire come se tradissimo un sogno.

Ma il sogno di chi? Chi ha fatto il sogno che adesso, tutti insieme, ci sentiamo costretti a sognare?

È un istinto naturale, quello di proseguire nella strada già intrapresa: se abbiamo dedicato dieci, venti, trenta anni della nostra vita a una visione di noi stessi, l’unica strada possibile ci sembra quella di insistere, per non buttare via lo sforzo passato. In realtà, le stesse razionali leggi economiche invitano a considerare una strategia diversa, che chiamano dello “stop loss”: fermare la perdita.

L’investimento che fino a ieri aveva senso e dava un senso alla nostra vita, potrebbe oggi non averne più. Abbandonarlo non vuol dire rinnegare le scelte fatte: chiudere un’esperienza non vuol dire buttarla via, anzi. È la sua conclusione a darle un senso compiuto, ed è per questo che il movimento più essenziale della generatività è quello del lasciar andare.

Lascio andare questo ruolo e così lo onoro: ne riconosco l’importanza e la responsabilità, e per questo non lo voglio più. L’articolo dell’Harvard Business Review cita la possibilità di cambiare i propri comportamenti, cambiare anche interamente la propria strategia, come la prima condizione per autorizzarsi a essere “meno ambiziosi” e a dirigere le proprie energie verso nuove direzioni.

A ognuno la sua storia

Jacinda Ardern parla di un “proprio modo di essere leader”, e anche questo fa scuola nella possibilità di definire una nuova storia per sé: il secondo punto citato dall’articolo è infatti la necessità di smettere di paragonare la propria storia a un modello ideale, smettere di inseguire un benchmark che non riflette chi siamo. Il vero valore aggiunto che ognuno di noi porta, al proprio lavoro e al mondo, sta nella storia unica che rappresenta: nessuna storia è lineare, nessuno (ma proprio nessuno) va da A a B nel modo in cui insegnano i manuali.

La realtà è che A e B sono diversi per ciascuno di noi, ed è giusto che sia così, e questa eterna, implicita competizione tra di noi e con un modello di perfezione ci rende schiavi di un disegno che non ci riflette, non segue la nostra capacità di cambiare nel tempo, che è invece la nostra più grande ricchezza.

Per tornare al concetto delle metafore da cui ci lasciamo governare senza sapere bene perché, dire “lascio” vuol dire anche “cerco”: faccio spazio a qualcosa di nuovo che potrebbe non essere di-più ma sarà certamente di-verso. Se ci sentiamo abbastanza convinti, possiamo ampliare anche il concetto di ambizione: non verso qualcosa definito dagli altri, ma verso qualcosa che si sostanzia di noi. Allora l’ambizione può diventare più grande a modo nostro: diventa l’ambizione a essere pienamente ciò che siamo, trasformandoci e, come ha detto il regista e sceneggiatore Alejandro Jodorowsky, cambiando strada ogni volta che lo sentiamo necessario”.

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  • Mariagiovanna |

    Condivido l’articolo appena letto.Quindi scelgo di partecipare al Dialogo!
    Grazie
    mgb

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