Forse continuiamo a chiamarle soft perché sono difficili da misurare: morbide e quindi sfuggevoli, interstiziali. Ma di fatto l’aggettivo “soft” fa anche pensare a qualcosa di meno importante e più fragile, non adatto alla durezza della realtà, della competizione, della corsa per il successo. Così, le inafferrabili competenze soft – che caratterizzano l’essere umano e che fanno illividire di rabbia in nostri colleghi robot che, nonostante i miliardi di investimenti in ricerca e tecnologia, non sono in grado di avere intuito, fantasia, visione, empatia – restano sempre un po’ in secondo piano: se ne parla molto ma alla fine non ci si crede fino in fondo.
Sono astratte, hanno output incerti, è difficile misurarne l’impatto sulla bottom line, sono influenzate da troppi fattori perché ci sia la convinzione di poterle efficacemente formare – il santo Graal del ROI della formazione – e quindi si tenta di instradarle in modo tecnologico: realtà aumentata, realtà virtuale, gaming… nella speranza che qualcosa resti, ma senza mai averne la certezza. Se non nei risultati. Perché quando una persona “ha” competenze soft si vede, e si vede bene. Si tratta di capacità che riguardano il saper stare con gli altri, saperli motivare, sapersi spiegare, saper risolvere situazioni complesse, prendere decisioni in assenza di informazioni complete, essere creativi, usare il pensiero laterale, avere autoconsapevolezza e via così.
Secondo una recente ricerca fatta da IBM, sono le competenze che tutti i CEO cercano disperatamente nelle persone. Le competenze tecniche, infatti, sono più facili da apprendere! E’ vero, alcuni sono più talentuosi di altri: ma proprio per gestire i grandi talenti tecnici servono grandi competenze umane. E le competenze umane, o soft skill, servono anche per gestire i non talenti: servono per avere relazioni con tutti e avere relazioni con una quotidianità sempre più imprevedibile e cangiante. Infatti, a essere cresciute drammaticamente negli ultimi anni – altro che sostituite dalla tecnologia, anzi: aumentate di numero e di definizioni per rispondere a quanto la tecnologia produce in scala crescente – sono le cosiddette “professioni senza routine”. Secondo una ricerca del National Bureau of Economic Research di Cambridge, tra il 1976 e il 2014 questa tipologia di professioni ha avuto un tasso di crescita 25 volte più alto rispetto a quello delle professioni routinarie.
Quindi, come osserva l’esperto di risorse umane John Bersin in un recente articolo sulle competenze, se nel 2007 i ricercatori di Oxford e del World Economic Forum lanciavano l’allarme, dicendo che l’automazione avrebbe eliminato il 45% delle professioni, oggi sappiamo che i posti di lavoro non sono spariti ma sono stati sostituiti da professioni nuove: professioni a intensa capacità umana. La maggior parte di noi, oggi, è impiegato proprio in professioni senza routine: le job description cambiano spesso e, ancora più di frequente, cambia il perimetro delle attività. Dobbiamo saperci adattare e continuare a saper collaborare con gli altri in condizioni di estrema incertezza, velocità, complessità. Non si tratta tanto di processare informazioni, quanto di saper selezionare che cosa è importante e di saper leggere tra le righe, quello che non c’è.
John Bersin rinomina le competenze soft: le chiama “power skill”. Per lui, e come non essere d’accordo, sono queste le vere competenze “hard” del presente e del futuro. Nella sua lista di venti power skill vi sono termini che potrebbero sembrare fuori luogo. Ma la resistenza culturale verso aree soft, a bassa possibilità di controllo, si rivela nelle organizzazioni proprio quando ci diciamo “questa cosa sul lavoro non la porterei”. Ci sono la gioia (capacità tutta da esplorare: magari in italiano la tradurremmo diversamente), la generosità, la gentilezza, la pazienza, la tenacia… più che competenze sembrano virtù. Ma ci sono anche l’etica, la capacità di sorprendersi e di perdonare, l’umiltà, l’integrità, l’ottimismo: attitudini e valori che evidentemente si trasformano in saper fare. E infine, per tornare in un’area vagamente più familiare, vi sono sia il “drive” che la capacità di seguire gli altri, la gestione del tempo, la capacità di apprendere, la flessibilità e il teamwork. Un bel pout pourri, di difficile misurazione. Un po’ come dire che vale tutto e niente: è il saper essere umani tra gli umani, inteso all’ennesima potenza.
Eppure questa capacità a scuola non hanno materie, e anche le università spingono sempre di più su altro. Forse non abbiamo dedicato abbastanza attenzione e risorse alla possibilità che queste competenze possano essere acquisite e migliorate in modi diversi rispetto alla formazione tradizionale. Che non si tratti di ap-prenderle (prenderle da qualche parte, da qualcuno), in un processo top down di trasferimento di contenuto a un contenitore: che quindi i canali di insegnamento e formazione che abbiamo creato per trasferire nozioni non siano adatti a trasferire anche le competenze soft.
E così non siamo mai certi di star davvero formando queste competenze. Vanno verificate nella quotidianità, ma non c’è un misuratore che ci dica se, quanto e quando sono apprese. Sono esperienziali (perché, come abbiamo scoperto con l’intelligenza emotiva, regina tra tutte le competenze soft, la loro acquisizione “cabla” il nostro cervello, cambiando in modo radicale i nostri comportamenti e per farlo ha bisogno di pratica continua), beneficiano di esempi e di role model, sono spesso “nascoste” nella diversità. Ma, soprattutto, le power skill le abbiamo già, sono nella nostra natura. Riguardano la psicologia, quindi, più che la conoscenza; riguardano il far fiorire ciò che siamo, più che aggiustarlo secondo necessità.
E’ legittimo pensare che sia difficile inquadrarle, formarle, misurarle, ma questo non giustifica la scelta di metterle in secondo piano. Se gli strumenti che abbiamo oggi non sembrano adeguati a migliorarle e a dar loro il giusto valore, allora cambiamoli, o sarà lo strumento a determinare ciò che vale invece che essere utile a svilupparlo. Le professioni emergenti, non routinarie e ad alta intensità umana, hanno bisogno di persone dotate di competenze soft (umane, potenti, trasversali, di vita… sul nome dobbiamo metterci d’accordo) – e la buona notizia è che le competenze soft sono accessibili a tutti, perché sono parte del corredo di capacità naturali degli esseri umani. Superiamo l’incertezza e crediamoci: è ora di investire davvero, a tutti i livelli, su nuovi modi di misurarle e di migliorarle.
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