Ragionare di parità, in Italia certamente, è esercizio necessario e indifferibile. Che il traguardo non sia ancora stato raggiunto è storia ma è anche cronaca, purtroppo, attualissima. A essere sotto attacco sono da tempo i diritti delle donne, sferzati dall’ultra-destra, in Polonia, come in Ungheria, in Turchia e Oltreoceano. Al riparo, nemmeno i diritti che sino a ieri si davano per acquisiti. Dell’interruzione di gravidanza si parla da mesi, dopo la decisione della Corte suprema statunitense che ricaccia l’aborto sul terreno della clandestinità, abolendo la sentenza che lo aveva legalizzato; malgrado la posizione della UE che è netta sul diritto alla salute declinato unitamente ai diritti sessuali e riproduttivi delle donne, nel nostro Paese ci si continua a scontrare contro il muro di gomma dell’obiezione di coscienza, in una percentuale tale da rendere di fatto l’aborto di difficilissimo esercizio.
Non va diversamente sotto il profilo della parità salariale, o dell’occupazione, e quello di genere appare come un gap che non si vuole colmare. C’è, com’è ovvio, da ripensare l’intera struttura che vogliamo dare al mondo e la maniera migliore passa indubbiamente per una nuova riflessione. Una delle voci che più spiccano per autorevolezza e attivismo è quella di Rosanna Oliva de Conciliis.
Rosa Oliva è una giurista e una scrittrice, insignita nell’autunno scorso dal Presidente Mattarella dell’Onorificenza di Cavaliere della Repubblica Italiana. “Il suo è stato un piccolo gesto che ha mosso una montagna” dice il Capo dello Stato mentre le consegna la Gran Croce, richiamando la sentenza della Consulta che nel 1960 aprì alle donne l’accesso agli uffici pubblici, sottraendolo di fatto al monopolio maschile. Ed è proprio la presidente della Rete per la Parità che Alley Oop incontra per fare il punto sui temi della parità.
Dalla sentenza della Consulta che su sua istanza ha cambiato la storia delle donne sono passati 62 anni. Da quel pronunciamento le donne hanno potuto partecipare ai concorsi pubblici e diventare prefetti, giudici e diplomatiche. Sul tema delle carriere ha scritto, con la professoressa Anna Maria Isastia, “Cinquant’anni non sono bastati”, cosa è successo in questo frattempo?
Nel 2010 celebrammo per la prima volta l’anniversario della sentenza e non erano bastati cinquant’anni; ora gli altri dodici che sono trascorsi ci hanno solo avvicinato alla parità, mentre è ancora lontana la conquista della piena cittadinanza da parte delle donne. Non siamo ancora al traguardo, come ha affermato lo stesso Presidente della Repubblica nel suo discorso del 2 giugno dell’anno scorso.
Che tipo di bilancio stiamo consegnando alle ragazzine di oggi?
Incombe il pericolo di ostacoli e passi indietro. Un peggioramento notevole si è verificato a causa della crisi sanitaria ed economica creata dalla pandemia e incombe ora anche un’altra crisi provocata dalla guerra in atto ai confini dell’Unione Europea.
Cara Irene ti scrivo è del 2010, in quella lettera auguravo a mia nipote e alle sue coetanee, le giovani donne di domani, di raggiungere nel 2060 (anno del centenario della sentenza), i loro obiettivi sia negli affetti che nel lavoro. In libertà, senza condizionamenti e senza dover lottare contro quegli stereotipi che oggi ancora contrastano il cammino delle donne. E accennavo al pericolo dei passi indietro: i passi del gambero. Siamo ancora alle prese con quei passi indietro, quando le leggi ottenute non sono rispettate o quando vengono cancellate e a causa delle crisi in atto.
Vorrei che le donne del futuro non dovessero compiere scelte difficili e dolorose come quelle che devono affrontare ancora oggi: la scelta tra famiglia e lavoro, tra lavoro e figli e tra carriera e figli.
Lei tocca un punto nevralgico, il lavoro di cura che continua a gravare quasi per intero sulle donne…
Ancora oggi tante mamme italiane, proprio come quando io ero giovane, sono costrette a scelte difficili, condizionate da carichi familiari che le portano al pesante ruolo della superdonna o a quello di chi deve rinunciare a molto, se non a tutto. Difficoltà che incidono sull’intera società: il nostro è un Paese di figli unici ed è sempre più un paese di anziani. Gli ostacoli per una donna sono ancora troppi, nonostante le tante leggi che abbiamo ottenuto, c’è ancora molto da fare per attuare in pieno i principi della Carta costituzionale e passare dalla parità formale a quella sostanziale.
Su quali terreni le donne devono ancora combattere per giungere alla concreta parità?
Partirei dagli stereotipi, introiettati sin dalla più tenera età, destinati non a ridursi ma ad aggravarsi. Nonostante, anzi proprio a causa della diffusione delle nuove tecnologie. Non si riflette abbastanza, all’interno della grande rivoluzione digitale, sul contenuto degli algoritmi alla base dell’intelligenza artificiale. Sono creati dagli uomini che, inconsapevolmente, vi trasferiscono i loro stereotipi. Si deve riflettere su questi e altri fattori e individuare gli strumenti per contrastare il perpetuarsi di quello che da tempo ho definito il “monopolio maschile” che comporta un abuso di posizione dominante che penalizza le donne nel lavoro e non solo. In questo contesto è indispensabile uno sforzo comune, insieme con gli uomini perché è una situazione che danneggia tutte e tutti.
E qual è il ruolo del femminismo, oggi? È cambiato, mentre molte delle istanze delle donne sono ancora sul tavolo?
Ho vissuto personalmente gli anni in cui l’obiettivo di noi donne era l’emancipazione femminile, intesa come conquista degli stessi diritti degli uomini. È stato proprio quello che mi ha spinto a presentare il ricorso alla Corte costituzionale. Negli anni successivi abbiamo raggiunto la consapevolezza della grande diversità tra donne e uomini e della necessità di cambiare il contesto sociale e politico costruito a misura d’uomo. L’obiettivo non è più l’uguaglianza ma la parità, intesa come rispetto delle diversità: non è equo fare parti uguali tra disuguali, come in maniera incisiva ha affermato Don Lorenzo Milani; lo dobbiamo al femminismo, termine col quale io vorrei riferirmi non solo al movimento degli anni ’60 del secolo scorso – che comunque ne costituisce il fulcro – ma all’ampio movimento delle donne che risale all’Ottocento e si è sempre più diffuso nel mondo.
I diritti delle donne sono sotto attacco, oggi più che mai, in tutto il mondo. È in atto una regressione pericolosissima su più fronti, quali sono i diritti più a rischio in questo momento?
La situazione è molto diversa nei vari Paesi, è più grave nei Paesi dove è in atto una qualche forma di conflitto. Al rischio di vita che riguarda la popolazione civile, si accompagna spesso il peggioramento della condizione delle donne. Drammatico il caso dell’Afghanistan, dove si stanno negando i diritti che le donne avevano conquistato e si perseguitano quelle che coraggiosamente protestano pubblicamente o violano gli ordini. Questi anni di emergenza sanitaria hanno acuito il divario e le criticità già presenti prima dello scoppio della pandemia. All’interno del GDL 5 dell’ASviS abbiamo approfondito le conseguenze della pandemia e della correlata crisi economica che, in una analisi sull’impatto della crisi in termini di genere, evidenzia il rischio di rendere strutturali gli arretramenti accumulati negli ultimi due anni in alcuni degli ambiti più sensibili, primo fra tutti quello occupazionale. Secondo l’Istat, il tasso di occupazione femminile nel 2021 era circa al 50%, 18 punti in meno di quello maschile, la situazione è ancora persistente.
Dove bisogna intervenire ancora per giungere alla concreta parità?
Sembra una questione solo formale ma continuare a utilizzare un linguaggio che nasconde le donne produce vari effetti dannosi e induce le donne che entrano in contesti maschili a omologarsi. Insieme con l’associazione Femminile Maschile Neutro, avevamo predisposto una bozza di disegno di legge per superare le discriminazioni linguistiche contenute nella normativa vigente e imporre la concordanza dei titoli funzionali al genere della persona cui vengono assegnati. A causa dell’anticipata fine della legislatura abbiamo dovuto rinviare questa iniziativa alla prossima.
Nel frattempo avevamo anche suggerito al Senato di inserire, in occasione della modifica del regolamento, una disposizione che avrebbe introdotto il rispetto del linguaggio di genere nelle comunicazioni di Palazzo Madama. L’emendamento, bocciato dal Senato, avrebbe modificato il linguaggio delle comunicazioni istituzionali e lo stesso regolamento, prevedendo la declinazione al femminile delle cariche ricoperte da donne. In sostanza, si trattava di introdurre “senatrice”, ‘la presidente’, ‘ministra’ etc.
Ciò non di meno riteniamo sia importante tentare di perseguire l’obiettivo di scalfire almeno in parte l’invisibilità delle donne e tutto ciò che è legato alla violenza che si perpetua nei loro confronti.
Lei ha fondato la Rete per la parità. Quali sono i vostri progetti in questo momento?
Proprio recentemente si sono tenute, a pochi giorni di distanza, l’assemblea dell’associazione e la riunione del comitato scientifico. Due occasioni utili per mettere in comune le tante idee e iniziative sulle quali l’associazione si è impegnata finora e per programmare quelle prossime. Accenno solo ad alcune. Oltre alle questioni che ho esposto riguardanti il linguaggio, un progetto che ci impegnerà molto è quello dell’accoglienza delle giovani atlete afghane di etnia hazara che in questi giorni sono arrivate in Italia, le giovani cicliste afghane, accompagnate da alcuni familiari, dopo un lungo percorso che ha visto la Rete per la Parità schierarsi costantemente al fianco della coraggiosa giornalista sportiva Francesca Monzone. Uno straordinario esempio dei risultati ottenuti dalla Rete per la Parità, grazie all’impegno, insieme con altre associazioni femminili di rilievo nazionale e università, per garantire i diritti delle donne.
Siamo al fianco della FCEI – Federazione delle chiese evangeliche in Italia, capofila del progetto, e delle amministrazioni locali a sostegno del nuovo percorso di accoglienza e integrazione; un percorso importante, al centro del quale va posta la persona nella sua unicità, nella sua quotidianità e nello sviluppo delle sue relazioni.
Siamo impegnate anche su iniziative riguardanti le discriminazioni che riguardano l’abuso di posizione dominante nelle libere professioni. Inoltre l’associazione sta lavorando in una Piattaforma interregionale per le donne nelle istituzioni, appositamente istituita, per ottenere la doppia preferenza di genere nelle leggi elettorali delle quattro regioni che ancora non la prevedono. Su altre iniziative si sono costituiti, nell’ambito del Comitato Scientifico, appositi gruppi di lavoro. In tutte le nostre attività cerchiamo di fornire tempestive e dettagliate notizie attraverso il sito e sui nostri social.
A proposito di una battaglia che lei ha fatto sua e che combatte da sempre: come ha accolto la recente decisione della Consulta (sentenza n. 231) che ha appena aperto al doppio cognome?
Insieme con il rispetto dell’uguaglianza tra i sessi, il cognome è espressione del diritto (o dei diritti) della personalità che trova il suo primo fondamento nel diritto all’identità personale sancito nell’articolo 2 della Costituzione, ribadito a livello internazionale nella Dichiarazione Universale dei diritti umani. Sui vari aspetti che riguardano la necessaria riforma organica del cognome, definita indifferibile dalla Corte già nella precedente sentenza n. 286 del 2016, la Rete per la Parità in varie occasioni, anche pubbliche, aveva svolto approfondimenti con persone esperte della materia e chiesto e ottenuto il consenso da parte di rappresentanti istituzionali. Intervenuta l’importante seconda sentenza della Corte costituzionale ne abbiamo seguito attentamente la fase di applicazione e la necessità di un apposito intervento legislativo.
Con la caduta del Governo Draghi e lo scioglimento anticipato delle Camere, con conseguente limitazione delle attività del Governo e del Parlamento ai soli affari correnti, abbiamo dovuto prendere atto con grande rammarico che neanche nella XVIII legislatura sono state approvate le disposizioni di legge urgenti e necessarie riguardanti il cognome e debba persistere ancora per un tempo indeterminato una grave lesione di diritti soggettivi costituzionalmente garantiti. Nel frattempo, sono possibili e indispensabili, urgenti disposizioni regolamentari, anche in considerazione del fatto che, in assenza di una idonea regolamentazione, si sono verificate criticità nell’applicazione della precedente sentenza n. 286/2016 ancora non sanate. Sull’applicazione abbiamo dovuto constatare che, nonostante la tempestiva circolare del Ministero dell’Interno del primo giugno scorso, solo pochi comuni hanno aggiornato le procedure delle dichiarazioni di nascita e provveduto alle necessarie misure amministrative e organizzative tra le quali l’aggiornamento dei siti istituzionali nella parte concernente le dichiarazioni di nascita.
Da una veloce ricerca è risultato che solo in una parte dei comuni la sentenza è stata applicata con facilità. Non è da escludere che questa situazione, unita alla carente informazione ai neogenitori, sia alla base dello scarso ricorso alle nuove disposizioni e potrebbe anche causare vertenze.
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