Tratta degli esseri umani: ogni 10 vittime 5 sono donne e 2 bambine

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“Dopo anni di abusi sono riuscita a scappare dalla famiglia che mi aveva reso la loro schiava”.

Inizia così il racconto di Annastazia, giovane donna di 16 anni che da quando è morta la madre vive una vita difficile in Tanzania. WeWorld – organizzazione impegnata da 50 anni a garantire i diritti di donne, bambini e bambine in 25 Paesi del mondo, compresa l’Italia – ha raccolto la testimonianza di Annastazia e quella di molte altre donne, bambine e bambini vittime di tratta in occasione della Giornata internazionale contro la tratta di esseri umani di sabato 30 luglio.

I dati sono allarmanti. Come evidenzia il Global Report on Trafficking in Persons 2020 di UNODC (United Nation Office in Drugs and Crime), per ogni 10 vittime di tratta – identificate a livello globale – 5 sono donne e 2 sono bambine. Nell’insieme, il 50% delle vittime identificate è oggetto di tratta per sfruttamento sessuale e il 38% soggetto a lavoro forzato (circa 25 milioni di persone).

Il caso della Tanzania

Nell’Africa Sub Sahariana la maggior parte delle vittime sono bambini e bambine e rappresentano oltre il 60% delle persone vittime di tratta, la maggior parte di loro a scopo lavorativo e, per le donne, matrimoni forzati. Non è un caso, infatti, se il fenomeno dell’abbandono scolastico precoce è comune in Tanzania e viene stimato che circa 1.5 milioni di giovani ragazzi e ragazze tra 7 e 17 anni abbiano abbandonato la scuola: circa una persona ogni cinque alle elementari, mentre all’età di 17 anni la metà ha smesso di studiare.

Annastazia è solo una delle tante donne nel mondo vittime di tratta che finiscono nel circolo della schiavitù moderna. La schiavitù, infatti, esiste ancora in molte forme eterogenee e l’ILO (International Labour Organization) la definisce come quella “situazione di sfruttamento dalla quale una persona non può sottrarsi a causa di minacce, violenze, costrizione, inganno e/o abusi di potere”.  Non quindi solo servitù domestica ma anche sfruttamento sessuale e il lavoro forzato nell’edilizia o nell’agricoltura.

“In Tanzania le giovani vittime di abusi sessuali e violenza – spiega Antonio Piccoli, rappresentante Paese Tanzania di WeWorld – non ricevono un’assistenza adeguata. La violenza fisica è molto radicata nelle tradizioni, nella cultura e nelle norme del Paese, e pratiche quali le punizioni corporali sono comuni e accettate sia nell’ambiente domestico che a scuola. Sosteniamo i bambini e le bambine che vittime di abusi tramite assistenza legale, psicologica e medica.  Per questo, abbiamo realizzato azioni di ricongiungimento famigliare ed empowerment delle vittime, oltre che campagne di sensibilizzazione ed eventi all’interno delle comunità volti ad aumentare la consapevolezza riguardo i diritti dell’infanzia, con lo scopo di prevenire la violenza”.

WeWorld è attiva in Tanzania dal 2010 e dal 2017 gestisce il KIWOHEDE Bunju Center, un centro polivalente con l’obiettivo di proteggere ed educare bambine, bambini e giovani delle comunità limitrofe al distretto di Kinondoni, ma anche da altri distretti come Ilala, Temeke, Ubungo e Kigamboni in Dar es Salaam. Qui l’organizzazione ha accolto negli ultimi anni circa 400 ragazzi e ragazze (90% ragazze) tutte tra i 10 e i 21 anni. Tra assistenza psico-sociale, educazione secondaria, corsi di formazione professionale ed attività sportive si prova a ridare una vita serena alle tante donne rimaste vittime di tratta.

Storie di violenza e speranza

La vita di Annastazia, in Tanzania, è stata piena di cambi di casa e sogni infranti. “Dopo aver concluso la scuola primaria – racconta – ho iniziato quella secondaria ma solo 3 mesi dopo mio padre mi ha costretta a spostarmi. Mi maltrattava e violentava quotidianamente così sono scappata e mi sono affidata a una famiglia che si era offerta di aiutarmi. Purtroppo volevano solo una domestica, mi facevano lavorare sodo e non avevo tempo per altro. Subivo spesso maltrattamenti, ma per fortuna un giorno sono riuscita a scappare anche da lì”.

Anche Macrina, 13 anni, è scappata dal proprio villaggio, convinta dalla zia, per vivere una vita migliore in città. Dopo un lungo viaggio, stanca e assonnata, è stata data ad un uomo che le ha subito dato molto lavoro. “Una volta arrivata volevo dormire un po’ ma il mio datore di lavoro mi ha svegliata e mi ha detto che avrei dovuto iniziare a lavorare immediatamente perché avevo molti compiti. Ho svolto lavori molto pesanti senza mai avere il tempo di riposare per quasi tre settimane. Per fortuna sono riuscita ad andarmene subito e a trovare rifugio nel Bunju Center che mi ha accolta”.

Come lei, anche Stella è stata ingannata dalla zia: “Avevo appena finito il corso di sartoria e mi aveva promesso che mi avrebbe fatto continuare a studiare de l’avessi seguita. Mi sono ritrovata a fare i lavori domestici a casa di mio fratello e mia cognata: lavoravo sodo e non venivo pagata. Mia cognata mi maltrattava e mentre lei stava con le amiche o si riposava, io dovevo pensare a tutto. Ho chiesto più volte di tornare a studiare ma le promesse non venivano mai mantenute e sono scappata”.

Dall’Africa all’Italia

La tratta di essere umani non è solo un fenomeno che riguarda i Paesi più vulnerabili del mondo. Infatti, dall’Africa all’Italia, a Ventimiglia, il reclutamento di vittime e le violenze contro donne, bambine e bambini sono tristi realtà anche per i Paesi occidentali. Jacopo Colomba di WeWorld racconta che “a Ventimiglia, al confine con la Francia, rintracciamo e incontriamo tantissime donne sottoposte ad un controllo serrato da parte dei trafficanti e potenzialmente vittime di tratta, di sfruttamento sessuale e di violenza di genere. Le donne vengono intercettate da connazionali direttamente in stazione e portate in luoghi lontani dall’attenzione. Questi luoghi si sono trasformarti in veri e propri spazi di reclutamento di vittime – soprattutto per giovani donne nigeriane e ivoriane – che vengono ingannate con la prospettiva di un passaggio oltreconfine”.

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