Il percorso verso l’equità di genere e, ancor prima, il rispetto dei diritti delle donne, che sono diritti umani, continua ad essere accidentato, per non dire ostacolato. Basti guardare all’inquietante sentenza della Corte suprema americana, che abolisce il diritto costituzionale all’interruzione volontaria di gravidanza, lasciando la libertà ai singoli stati di riconoscerlo o meno. Eppure, con diverso clamore, la stessa posizione è stata assunta di recente dall’europea Polonia, dove è consentito solo per stupro o incesto, ma non per malformazioni del feto.
Anche a livello globale, i segnali non sono particolarmente incoraggianti. L’ultimo Vertice G7 a presidenza tedesca, tenutosi a Elmau in Baviera lo scorso 26 giugno, ha ribadito le dichiarazioni di impegno a mappare i progressi in termini di Gender equality nei 7 Paesi membri e a monitorare e implementare l’accountability di episodi di violenza e discriminazione sui diritti umani. Ma la realtà è che non sono stati previsti specifici investimenti indirizzati alla lotta alla discriminazione o al contrasto alla violenza, né un budget ad hoc dedicato alle questioni di genere.
L’impressione è che sfugga il fatto che lo sviluppo, in chiave sostenibile e inclusivo, di cui tanto si parla e di cui il mondo intero ha un disperato bisogno, sia indissolubilmente legato al benessere e alla valorizzazione dei talenti delle donne. Ma come potranno mai avere pari accesso alle opportunità e all’autodeterminazione professionale, se non si crea un ecosistema favorevole e non discriminatorio?
A mettere bene in chiaro il legame tra i diversi aspetti è la recente survey dell’Osservatorio della Fondazione Libellula, nata ufficialmente nel 2020, ma attiva dal 2017, con il proposito di promuovere la cultura della bellezza, per prevenire e contrastare ogni forma di violenza sulle donne e di discriminazione di genere nelle aziende e, di conseguenza, nella società.
La survey L.E.I. (Lavoro, Equità e Inclusione) – che ha raccolto le risposte di 4316 donne dipendenti nelle oltre 70 aziende del network Libellula e in altre extra network, oltre a libere professioniste, durante il mese di marzo 2022 – ha indagato 5 aspetti interconnessi: esperienza di stereotipi, discriminazioni, molestie nel contesto professionale; driver motivazionali delle donne sul lavoro; rapporto con il denaro; percezione del contesto professionale rispetto all’equità di genere; gestione del tempo, lavoro retribuito e non retribuito.
L’evidenza più forte che emerge è che il potere è nelle mani degli uomini. Ciò che si vede esercitata nelle aziende è una leadership prettamente maschile, dovuta a un gap di rappresentanza nei ruoli manageriali, che è diffusa e trasversale ai diversi settori.
Ne consegue che la carriera degli uomini e delle donne corre a diverse velocità. Duole leggere, nero su bianco, che “crescere per una donna significa ancora oggi lottare di più di un uomo e fare sacrifici importanti”. E constatare che la genitorialità e il caregiving condizionano ancora così tanto il destino femminile nel medio e lungo periodo. Di fatto, la maternità rappresenta per le donne un pegno da pagare in termini di ambizioni, crescita, tempo di realizzazione.
L’impatto di misura nelle percentuali di abbandono del mercato del lavoro da parte delle madri e nel crollo demografico del Paese, che ha portato recentemente il direttore dell’Istat a parlare di “un’emergenza sociale”. Si fa ancora molta fatica, nonostante le evidenze empiriche di molti paesi europei, a vedere la stretta correlazione tra occupazione femminile e tasso di natalità: dove ci sono più opportunità di lavoro, si fanno più figli, ovvero si ha maggiore fiducia nel futuro e ci si può permettere il “sogno” di un progetto di vita.
Il passaggio successivo della survey rivela che in ambienti di lavoro siffatti, il doppio standard e gli stereotipi rispetto a ruoli, qualità e competenze di genere sono all’ordine del giorno e si traducono in una “consueta modalità di descrizione dei generi, svalutando in particolare l’ambizione delle donne e la loro assertività, tanto più quando ricoprono ruoli manageriali”. Prova ne è il linguaggio, spesso inappropriato, che costringe le donne a subire e gestire emotivamente battute sessiste e volgari, molestie di vario genere, che spesso non sanno come fronteggiare. Di fatto, dalla ricerca emerge che “trovarsi in una situazione di discriminazione, molestia o stereotipo sul lavoro è un’esperienza pressoché inevitabile per 1 donna su 2”.
A rendere le donne deboli di fronte a un tale contesto concorrono diversi fattori, su cui è più che mai indispensabile un’azione costante e strutturata di empowerment. Innanzitutto, i principali driver motivazionali rispetto al lavoro denunciano ancora un bias delle donne sull’ambizione e sulla richiesta del riconoscimento economico adeguato alla propria professionalità. Manca la consapevolezza di quanto il denaro significhi autonomia e libertà di scelta nella propria vita, oltre ad essere un antidoto alla violenza economica. Di fatto “la posizione delle donne rispetto al denaro, al valore economico del lavoro prodotto e della loro professionalità è tendenzialmente passiva”. Ed è avvilente leggere tra le righe della survey che anche in ambito privato prevalga la rassegnazione riguardo alla possibilità di cambiare lo squilibrio dei carichi familiari, che si mangia tutto il loro tempo, quello per la cura di sé, che sia fisica, intellettuale, spirituale…
Quanto alla fiducia che le donne ripongono in un’azione trasformativa da parte delle aziende, la survey rileva una percezione dell’impegno della propria impresa sull’equità di genere perlopiù medio-bassa. A volte, perché è effettivamente carente, altre perché il dichiarato e l’agito non corrispondono, altre ancora a causa di una mancanza di conoscenza delle policy attivate, che denuncia un’inefficace comunicazione interna all’organizzazione. Basti dire che “il 52% delle intervistate dichiara di non sapere se una donna vittima di violenza potrebbe ricevere aiuto e parlarne in azienda”. In generale, emerge che i ruoli manageriali non sono ancora considerati esempi e driver di equità, e che le policy sulla gender equality dovrebbero tradursi in obiettivi concreti, prassi manageriali e processi aziendali.
A fare la differenza, sarà quindi un’azione collettiva delle aziende, trainata da quelle che già stanno sperimentando strategie efficaci. In questo senso, Fondazione Libellula è un esempio di quanto sviluppare progetti ad hoc e condividere best practice possa innescare un circolo virtuoso. Rispetto ai risultati generali della survey, nelle aziende aderenti al network si registrano significativi miglioramenti. La percezione dell’impegno della propria azienda verso l’equità di genere è medio-alta e infatti “i ruoli di leadership sono più distribuiti tra i generi, è molto meno diffusa l’esperienza di essere “l’unica donna al tavolo”, i tempi di carriera tra uomini e donne si avvicinano, diminuisce l’idea che una donna faccia carriera per le sue abilità seduttive. A fronte di un ambiente di lavoro più equilibrato, cala la possibilità di essere vittima di molestie, discriminazione o stereotipo. E, a dimostrazione che tutto si tiene, emerge una maggiore consapevolezza della maternità nella prospettiva più corretta della genitorialità, considerata un valore imprescindibile della società intera.
A chi pensa che sia un lusso per medie e grandi aziende, va ricordato che non è tanto una questione di budget, quanto piuttosto di priorità che le aziende devono imparare a darsi. Rimarranno stupite di quanto una cultura improntato all’adultità possa rivelarsi fruttuosa, anche sul fronte delle performance.
***
La newsletter di Alley Oop
Ogni venerdì mattina Alley Oop arriva nella tua casella mail con le novità, le storie e le notizie della settimana. Per iscrivervi cliccate qui.
Per scrivere alla redazione di Alley Oop l’indirizzo mail è alleyoop@ilsole24ore.com