Siamo alla vigilia degli Europei di calcio femminile, che si terranno in Inghilterra dal 6 al 31 luglio. La Nazionale italiana, guidata dalla ct Milena Bertolini, è qualificata e giocherà in un giro non semplice con Francia, Belgio e Islanda. In occasione dei Mondiali di Francia del 2019 partite come Italia-Brasile hanno contato più di 7 milioni di spettatori e nel complesso la coppa del mondo femminile superò il miliardo a livello globale.
La Rai e Sky Sport scommettono anche quest’anno sul richiamo delle partite delle azzurre e trasmetteranno in diretta i match. Ma cosa sta succedendo nelle società sportive italiane, intanto? Le iscrizioni di bambine alle squadre miste, fino ai 12 anni, stanno aumentando e non solo nel calcio. Nel rugby, per esempio, le nuove iscritte sono più dei nuovi iscritti a livello globale. Un trend che comunque dovrà durare per almeno un decennio per colmare il gap che esiste, almeno in Italia, fra la percentuale di bambine che fanno sport di squadra e quella di bambini.
Perché scegliere uno sport di squadra?
Fare uno sport di squadra non si traduce solo nell’imparare a correre con un pallone (in mano o fra le gambe), palleggiare, tirare a canestro, stoppare un tiro, fare un terzo tempo, placcare un avversario, intercettare un lancio o un rimbalzo sotto canestro. Si imparano competenze e soft skill utili nella vita e sul lavoro.
Ad esempio si impara che cos’è un coach: qualcuno che sceglie i giocatori, spiega gli schemi e tesse le fila perché le individualità diventino una coralità. E’ colui o colei che studia il campo, l’altra squadra e le condizioni dei propri giocatori e poi sceglie la strategia per la partita. Si impara, poi, che i coach non si mettono in discussione, anche quando ti sembra che stiano proprio sbagliando. Perché i coach hanno sempre un motivo alla base delle loro scelte (almeno in gran parte dei casi).
Si impara cos’è una squadra: un insieme di individui che non si sono scelti, ma che si trovano a lavorare insieme per lo stesso obiettivo. C’è quella simpatica, ma con la quale in campo non c’è alcuna intesa. Quella davvero odiosa, ma che ti capisce al volo e anticipa la tua intuizione. Quella che è come se non ci fosse, per quanto ti è indifferente, ma che in campo ha il guizzo proprio quando serve. E tu ti trovi a fare i conti con qualcosa che va aldilà dei rapporti personali. Perché in campo si gioca tutti con lo stesso fine: fare più punti degli avversari. Il resto, tutto il resto, resta fuori.
Si impara ad avere un ruolo. E’ il coach che decide dove giochi e come giochi. Può piacerti o meno, ma non puoi scegliere. A volte non comprendi neanche perché ti è stata assegnata quella posizione in campo. A volte il ruolo che hai non è quello delle tue aspirazioni e accettarlo non è da tutti. Avere un ruolo vuol dire avere una disciplina in campo e sapere qual è il proprio posto negli schemi che vengono chiamati durante la partita. Vuol dire prendersi le responsabilità di quello che ci si aspetta da te.
Si impara che ci sono gli schemi: puoi chiamarli con nomi di donna come coach Carter nel film o con numeri, ma funzionano se tutti riescono a muoversi come ingranaggi di un orologio. Solo con gli schemi non ci si pesta i piedi e si trovano le compagne quando si passa la palla. Ma allo stesso tempo si impara che le partite non si vincono solo con gli schemi. Le partite si vincono con l’estro, la creatività e l’istinto. Caratteristiche che possono emergere solo se tutto il resto funziona.
A molti tutto questo può suonare banale. Invece per la maggior parte delle donne e delle ragazze non lo è affatto. Basta guardare i numeri: la percentuale di bambine che fanno sport di squadra, rispetto a sport individuali, è ancora esigua in Italia. Per non parlare poi della fascia di età che va dall’adolescenza ai vent’anni, che vede un abbandono verticale dello sport da parte delle ragazze (che sia individuale o sia di squadra).
Perché le bambine dovrebbero fare sport di squadra?
I dati Istat ci raccontano che sei bambini su 10 fra i 3 e i 10 anni fanno uno sport di squadra. Di contro 5 bambine su 10 fanno sport individuali. Per lo più danza e ginnastica artistica. Ma perché è importante che le bambine imparino a correre dietro a un pallone? Le cose a cui ho accennato prima (coach, ruolo, schemi, obiettivo comune, squadra) e quello che comportano permettono di sviluppare competenze e capacità che non si limitano ad essere utili solo per gli atleti, ma che possono fare la differenza anche nel lavoro e nella vita.
Facciamo un esempio. Negli sport individuali, così come negli sport di squadra l’allenatore incita, sostiene e motiva. Qual è allora la differenza allora? Perché una differenza c’è fra ginnastica ritmica e rugby. Nella danza e nella ginnastica artistica o ritmica, così come nel pattinaggio sul ghiaccio, ad esempio, si lavora per raggiungere la perfezione del gesto, del movimento, dell’espressione. Negli sport con la palla si impara a provarci: basta pensare a tutte le volte che abbiamo sentito un allenatore gridare da bordo campo ”Tira!” a un proprio giocatore. Una differenza da poco? No, se andiamo a vedere cosa succede crescendo. Gli studi ci dimostrano come gli uomini ottengano promozioni e aumenti sulle loro prospettive di crescita futura. Le donne, più spesso, si impegnano nel loro lavoro perché ritengono che facendo del loro meglio prima o poi saranno premiate. E quelle di loro che ottengono promozioni e aumento, ci riescono per i risultati raggiunti, non per le aspettative di sviluppo del loro potenziale.
Un esempio concreto di questa diversa predisposizione è emerso in Banca d’Italia in occasione dei test di selezione. Nella valutazione le risposte non date venivano contate come risposte sbagliate. Da un’indagine fatta internamente si accorsero che questo favoriva gli uomini. Di fronte a una domanda di cui non si conosce la risposta, gli uomini tentano comunque di dare una risposta e può capitare loro di dare quella corretta. Le donne, nell’incertezza, non rispondono. In Banca d’Italia hanno deciso di cambiare la valutazione dei test per ovviare al problema.
Stessa cosa accade quando c’è da candidarsi per una posizione di lavoro, una promozione, un ruolo di responsabilità. Le donne non si fanno avanti se non hanno tutti i requisiti richiesti, mentre gli uomini ritengono sia sufficiente avere il cinquanta per cento delle competenze richieste per candidarsi a una posizione o a una promozione. Questo crea (insieme ad una miriade di altri fattori) le distonie fra uomini e donne che riscontriamo poi fra i risultati negli studi e i risultati nel mondo del lavoro in termini di carriera e remunerazioni. Anche in questo caso i numeri fotografano la realtà e ci danno risultanze concrete su cui riflettere: quasi otto diplomate su dieci prosegue gli studi, mentre tra i ragazzi solo sei su dieci. E anche all’università i risultati delle donne continuano a essere migliori sia per quanto riguarda la regolarità negli studi sia sul piano dei voti. La quota di donne che si laureano in corso è più alta di quella dei compagni di studi. Non solo. Il voto medio di laurea delle dottoresse è più alto (103,4) di quello dei dottori (101,3).
Eppure il mercato del lavoro premia gli uomini. Tra i laureati magistrali biennali, a 5 anni dal conseguimento del titolo, il tasso di occupazione femminile è di 8 su 10, mentre quello maschile è di nove su dieci. E solo 52 donne su 100 hanno un contratto a tempo indeterminato, a fronte del 61 per cento degli uomini.
Per non parlare poi del gap salariale. A cinque anni dalla laurea magistrale biennale, gli uomini guadagnano mediamente il 19% in più delle donne: 1.637 euro mensili contro 1.375 euro. Certo può dipendere anche dai diversi percorsi professionali intrapresi. Tuttavia, anche a parità di condizioni, lo stipendio maschile risulta comunque più alto di 159 euro netti al mese rispetto a quello femminile. Inoltre, a cinque anni dalla laurea solo il 47 per cento delle donne svolge un lavoro a elevata specializzazione, contro il 56 per cento degli uomini.
Certo non si può dire che gli uomini guadagnino di più perché hanno giocato a pallone. La misurazione del gender pay gap è complessa, ma un fattore che concorre a creare una differenza di retribuzione potrebbe essere proprio l’aver praticato sport. I laureati sportivi hanno dimostrato un potenziale di guadagno maggiore rispetto ai loro coetanei meno attivi, secondo quanto risulta da uno studio della British Universities & Colleges Sport (BUCS). Lo studio rileva che i laureati che praticano sport all’università guadagnano in media 32.552 sterline, mentre quelli che non hanno guadagnato una media di 26.728 sterline. Si tratta, quindi, in media di una differenza di 5.824 sterline, pari al 18 per cento, in più all’anno. Quindi se in media gli uomini fanno sport più delle donne, hanno più chance di guadagnare di più. E questo grazie alle competenze acquisite: più della metà (51%) dei laureati intervistati nello studio ha affermato, infatti, che lo sport li ha aiutati a sviluppare capacità di leadership e qualità di lavoro di squadra sul posto di lavoro.
Perché non imparare giocando?
Si tratta solo di due esempi di competenze che si allenano con l’attività sportiva e che possono poi risultare utili e vincenti anche nel mondo del lavoro. In realtà le ore di allenamento, i sacrifici per migliorare i propri risultati, la tensione delle partite, il supporto ai compagni di squadra hanno aggiunto competenze al curriculum vitae degli atleti. A partire naturalmente dal saper fare squadra: imparare a lavorare con gli altri, sapersi passare la palla, saper fare della propria individualità un tassello di un team, saper lavorare per un obiettivo comune sono tutte capacità valorizzate nelle aziende.
Per non parlare poi della capacità di leadership: prendere decisioni difficili e tempestive; saper ispirare, motivare e guidare i compagni (colleghi); saper costruire rapporti di fiducia; saper ascoltare e saper comunicare; saper risolvere i conflitti. Sono tutte doti che portano ad emergere anche nel lavoro. A questo si aggiunga la capacità di gestione del proprio tempo per poter conciliare impegni di studio e impegni sportivi; la capacità di saper accettare le sconfitte e imparare dai propri errori; il saper gestire la pressione delle partite e la responsabilità del proprio ruolo; il saper raggiungere i risultati con dedizione, sacrificio e determinazione. Sono solo alcuni esempi di quanto la pratica sportiva possa insegnare e possa poi fare la differenza anche nella vita, non solo professionale.
Respirare sport e fare sport fin dall’infanzia, come d’altra parte studiare musica o essere uno scout in altra maniera, equivale ad acquisire dei super poteri che potremo usare quando ne avremo bisogno. E’ una forma mentis che ci dà qualche possibilità in più. Una risorsa, che si può acquisire giocando e che può fare la differenza.
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