Dispersione scolastica implicita e NEET, un’ingiustizia generazionale

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La dispersione scolastica implicita in Italia si traduce con una percentuale preoccupante: il 45% di ragazzi e ragazze di 15 anni non è in grado di raggiungere un livello minimo di competenze in italiano, percentuale che sale al 51% per la matematica. E’ questo uno dei dati emersi in occasione del panel “Impossible” promosso da Save the Children e da poco concluso a Roma.

Non riuscire a comprendere il significato di un testo scritto, non saper svolgere un ragionamento logico e non saper fare un semplice calcolo aritmetico rappresenta un dramma non solo per il sistema di istruzione e per lo sviluppo economico, ma per la tenuta democratica di un Paese. I più colpiti sono gli studenti delle famiglie più povere, quelle che vivono al sud e quelle con background migratorio. Anche la dispersione scolastica vera e propria, cioè i giovani che non raggiungono un titolo di studio oltre il diploma di terza media, si mantiene, pur con lievi miglioramenti.

I dati ufficiali fotografati da Save the Children riportano quello che molti insegnanti hanno toccato con mano negli ultimi due anni: la pandemia ha prodotto un vero tracollo degli apprendimenti degli studenti, soprattutto nelle scuole secondarie di primo e secondo grado. Apprendimenti che, già prima della crisi sanitaria, disegnavano la mappa di un Paese disuguale, incapace di garantire equità nelle opportunità di crescita. Le profonde diseguaglianze territoriali nelle opportunità di crescita dei bambini, delle bambine e degli adolescenti che attraversano l’Italia, incidono da subito sullo sviluppo e il benessere dei più piccoli, generando una “ingiustizia generazionale” fin dalla più tenera età.

La discriminante di dove vivi

Vivere in aree deprivate (a livello educativo, economico e ambientale) come quartieri di periferia, città satellite, aree interne, infatti, pregiudica le aspirazioni e la crescita dei minori oltre che delle comunità. Con il paradosso che proprio nelle aree dove si concentra la povertà minorile, la rete dei servizi socio-educativi, che dovrebbe essere più solida, è estremamente debole, accentuando i divari di partenza. Questi divari di opportunità incidono fortemente sul mancato raggiungimento della soglia minima di competenze di base, la dispersione scolastica implicita, che colpisce il 37,6% degli studenti nelle province a maggior tasso di svantaggio economico familiare rispetto al 21,1% nelle province con il maggior numero di studenti di livello socioeconomico elevato (16,4% di differenza).

Se viene confrontato il livello di opportunità nelle province dove vive il maggior numero di studenti in condizioni di svantaggio socioeconomico familiare rispetto a quelle dove vive il maggior numero di studenti con il più alto livello socioeconomico familiare, il quadro che emerge è allarmante. Solo il 18% dei bambini delle scuole primarie che vivono nelle province caratterizzate dal più alto tasso di svantaggio ha la mensa scolastica, rispetto all’87% dei bambini delle province con il più alto numero di studenti di livello socioeconomico elevato (un gap del 69,3%). Una forbice di 62,4 punti percentuali si registra anche per il tempo pieno: nelle province svantaggiate lo assicura solo il 14,8% delle classi primarie, a fronte del 77,2% di quelle delle province con il più alto numero di studenti di livello socioeconomico elevato. Il divario territoriale colpisce anche i più piccoli, se si considera che nelle province svantaggiate solo il 5% dei bambini accede ad un asilo nido pubblico, rispetto al 24,5% delle altre.

Questione di età

I dati non migliorano se si sale di età. Sono infatti il 23,1% nella fascia di età dai 15 ai 29 anni, i “NEET Not in Employment, Education or Training, per i quali l’Italia detiene un triste primato a livello europeo. I giovani che si trovano attorno ai vent’anni fuori da ogni percorso di scuola, formazione e lavoro sono due milioni di ragazzi e, ancor di più, di ragazze. Anche questo dato non è omogeneo nel Paese: in Sicilia, tra le ragazze, si raggiunge la percentuale del 39,4%. Si sopravvive, magari con lavori in nero, senza prospettive di autonomia in anni cruciali, anche per decidere se diventare genitori.

Il quadro si fa ancora più cupo se consideriamo che negli ultimi dieci anni circa 345mila giovani, tra i 18 e i 39 anni hanno deciso di lasciare l’Italia per trovare un lavoro altrove. Una scelta in molti casi motivata non dalla giusta esigenza di sperimentarsi temporaneamente in altri contesti, ma dalla assenza di alternativa.

Le ragazze vivono questa deprivazione ancor più dei ragazzi, perché la condizione di NEET si declina, in primo luogo, al femminile. I dati di rendimento scolastico che vedono le ragazze generalmente più preparate dei coetanei durante il ciclo degli studi si ribaltano. Prima si registra il progressivo allontanamento dalle materie scientifiche, a causa di consolidati stereotipi di genere, e poi ci si trova di fronte ad una barriera ancora più alta da superare per entrare nel mondo del lavoro.

Il mismatch con il mondo del lavoro

ll mondo produttivo lamenta di non trovare capitale umano da impiegare nelle aziende. Sbrigativamente, questo gap viene talvolta imputato alla scarsa voglia di fare dei ragazzi e delle ragazze. Mentre siamo di fronte ad uno straordinario mismatch tra le aspettative del mondo del lavoro e l’offerta educativa. In realtà, stiamo assistendo a una grande perdita e spreco di talenti, di capacità e di intelligenze. Sono nodi da affrontare e sciogliere subito, per guardare al futuro del Paese. Lo si può fare solo con una strategia integrata che parta dal mondo della scuola attraverso un piano di sviluppo di competenze per l’occupabilità (employability skills), tra cui in particolare le cosiddette competenze trasversali (soft skills), ambientali (green skills) e digitali che metta in gioco e responsabilizzi le agenzie formative, le aziende e il mondo del lavoro.

Nel nostro Paese i giovani sono sempre di meno e questo significa che anche le loro voci sono sempre più deboli e inascoltate. Si rende quindi urgente e necessario promuovere e creare spazi attivi nella vita pubblica in cui i giovani possano partecipare e far sentire la propria voce nelle scelte dalle quali oggi sono tenuti fuori.
Save the Children ha dato il suo concreto contributo lanciando un nuovo programma di trasformazione urbana, volto a produrre un cambiamento profondo e duraturo nei contesti di crescita dei bambini, delle bambine e degli adolescenti che vivono in quartieri difficili ma, al contempo, ricchi di risorse civiche. Con la partecipazione diretta delle comunità locali, a partire dai ragazzi e dalle ragazze, saranno definiti dei Piani territoriali di sviluppo dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza per assicurare, con un orizzonte temporale di sei anni, a tutti i bambini diritti essenziali nel campo dell’educazione di qualità, della salute, dell’ambiente, del gioco, della socialità, dell’accesso al mondo digitale e della sicurezza.

Da anni Save the Children, assieme a una rete di associazioni partner territoriali, è attiva nelle aree dove la povertà educativa è più forte, innanzitutto attraverso la rete dei Punti Luce. Con questo nuovo intervento ci poniamo l’obiettivo di superare la frammentazione che spesso caratterizza gli investimenti a favore dell’infanzia e dell’adolescenza, ripartendo dai territori e dalla vita reale dei bambini e delle bambine.” ha commentato Raffaela Milano, direttrice dei programmi Italia-Europa di Save the Children.

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  • cristina |

    Mi interessano i temi della formazione e lavoro

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