Non arriva mai il momento giusto per prendersi cura di sé. E, soprattutto, non arriva quando c’è più bisogno di farlo: quando, nell’urgenza e nella fatica di stare dietro a tutto, le batterie sono scariche e si fa tutto male. Allora, proprio allora si dovrebbe fare una (lunga!) pausa, come quella che concediamo ai dispositivi quando li attacchiamo alla spina. In realtà, siamo sempre meno abituati a spegnere anche loro, persino di notte, persino quando sono in ricarica. Sono tutti “always on”, e noi prendiamo ispirazione. Le logiche che ci hanno portati a questa iperproduttività sono abbastanza note: il progresso tecnologico ha aumentato esponenzialmente il numero di informazioni che ci raggiungono e che dobbiamo processare anche solo per capire se le useremo oppure no.
Tutto ci raggiunge facilmente ma, per quanto bravi e rapidi siamo diventati nel selezionare, due nostre risorse restano inesorabilmente scarse: tempo e attenzione. Comprimiamo il primo – o così ci sembra – e centelliniamo la seconda: il risultato è comunque una cosa che in inglese si chiama “fatigue” e in italiano, semplicemente, fatica. La nostra mente è come una casa costantemente strapiena di oggetti che siamo troppo occupati a classificare per trovare il tempo di buttare via. Pensiamo che ci sarà modo di farlo “dopo”, e che prima però dobbiamo occuparci del resto. Il resto intanto avanza, occupa tutti gli spazi, e il momento di mettere ordine e fare spazio non arriva mai.
Mettere ordine e fare spazio sono gesti di cura. Li facciamo nelle nostre case, quando finalmente dedichiamo un weekend a buttare via, ad andare oltre i riti quotidiani per vederle in una bellezza potenziale che avevamo dimenticato. Li facciamo con i nostri figli, quando li laviamo o tagliamo loro le unghie, ma anche quando sostiamo qualche minuto in più per guardarli mentre si scoprono allo specchio: facciamo spazio, di solito, con dei gesti nuovi, inusuali, autorizzandoci a usare nuove prospettive. E lì per lì sembra una fatica in più ma, ecco, sono proprio le cose nuove, le “altre” cose a ricaricare le nostre menti stanche.
Riposarsi, diceva un articolo dell’Harvard Business Review di qualche anno fa, riguarda come ti ricarichi, e non quanto resisti. Lo ripete più di recente il prof. Benjamin Friedrich della Kellogg University perorando la causa della settimana lavorativa di quattro giorni:
“I lavoratori sono meno stressati, hanno più possibilità di stare bene mentalmente e fisicamente e sono più soddisfatti perché hanno tempo per fare altre cose.”
Parlando di leadership e di resistenza, Nataly Kogan, autrice di “Happier now”, usa il termine “fitness emozionale”: una palestra di allenamento di alcune competenze emotive come consapevolezza, gestione dell’energia e gratitudine che secondo lei dovrebbe essere molto frequentata dai leader, ovvero da tutti coloro che nella vita si trovano a guidare e prendersi cura degli altri. Perché, dice l’autrice, non è vero che i leader “mangiano per ultimi” come asseriva qualche anno fa Simon Sinek ispirandosi al mondo militare: chi ha un ruolo di leadership deve invece mangiare presto e bene proprio per essere nelle condizioni di continuare a esercitarlo.
Ma mangiare non vuol dire accumulare, al contrario. Mangiare vuol dire fare ciò che ci nutre, che ci fa stare bene. E alcune volte vuole dire prendersi cura di sé: ma per riconoscere quelle volte occorre, come prima cosa, aver sviluppato la capacità di conoscere sé stessi e la propria debolezza, il proprio stato di bisogno. E, come seconda cosa, essere in grado di scegliere di dedicare del tempo a farlo: mettersi primi in fila e trattarsi con dolcezza. E non aspettare che sia passata la tempesta, ma farlo proprio nel bel mezzo della stessa. Ed è qui che sta la mission impossible per uno stile di leadership vecchia maniera: quello in cui “non si molla mai” perché tutto dipende da noi.
Forse, per avere dei luoghi dove ricaricarci, potremmo fare spazio a dei ruoli in cui non vi siano dipendenze: dei ruoli “senza conseguenze”. In controtendenza rispetto a un mondo sempre più interconnesso, in cui ogni movimento in un ambito ha un effetto farfalla su molti altri, farebbe bene a ognuno avere un luogo segreto in cui essere poca cosa, libero e senza aspettative: essere, insomma, indipendentemente da ciò che si fa succedere. Una casa, vuota e nascosta, dove respirare e basta.