Biennale Arte, la curatrice Cecilia Alemani recupera le artiste trascurate dalla storia

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Cecilia Alemani ha il coraggio e la voglia di cambiare le cose. Più dell’80% degli artisti e delle artitste invitati a partecipare alla Biennale di Venezia è donna o appartenente a un genere non binario. Gli uomini sono in minoranza. “Il latte dei sogni” è il titolo della 59. Esposizione Internazionale d’Arte che inaugura il 23 aprile e lei è la prima donna italiana a curarla nella storia dell’istituzione. Il titolo trae ispirazione da un libro di favole di Leonora Carrington (1917-2011), in cui l’artista surrealista descrive un mondo magico nel quale la vita viene reinventata attraverso il prisma dell’immaginazione ed è concesso cambiare, diventare altri da sé. L’esposizione sceglie le creature fantastiche di Carrington, insieme a molte altre figure della trasformazione, come compagne di un viaggio immaginario attraverso “le metamorfosi dei corpi e le definizioni dell’umano”.

andrea-avezzu_courtesy-of-la-biennale-di-venezia_avz-8294cCecilia Alemani intende recuperare il contributo femminile trascurato da una storia dell’arte bianca e occidentale. “Molte artiste e artisti contemporanei – dice la curatrice – stanno immaginando una condizione postumana, mettendo in discussione la visione moderna e occidentale dell’essere umano, in particolare la presunta idea di un soggetto bianco e maschio ‘uomo della ragione’ come il centro dell’universo. Al suo posto, contrappongono mondi fatti di nuove alleanze tra specie diverse, abitati da esseri permeabili, ibridi e molteplici, come le creature fantastiche inventate da Carrington”. Alemani descrive un clima in cui l’acutizzarsi di tensioni sociali come la guerra in Ucraina, la pressione della tecnologia, lo scoppio della pandemia e la minaccia di incipienti disastri ambientali ricordano che in quanto corpi mortali siamo parte di un sistema di dipendenze simbiotiche, che ci legano gli uni con gli altri ad altre specie e al pianeta.

Sono molte le artiste e gli artisti che ritraggono la fine dell’antropocentrismo celebrando una nuova comunione con il non-umano, l’animale e la Terra “esaltando un senso di affinità tra specie e tra l’organico e l’inorganico, l’animato e l’inanimato“. Altri riscoprono forme di conoscenza locali e nuove politiche identitarie. Altri ancora praticano ciò che la filosofa femminista Silvia Federici descrive come il “re- incantesimo del mondo, mescolando saperi indigeni e mitologie individuali, in modi non dissimili da quelli immaginati da Leonora Carrington“.

Le capsule storiche

La mostra sarà aperta fino a domenica 27 novembre e si articola tra il Padiglione Centrale ai Giardini e l’Arsenale, includendo 213 artiste e artisti provenienti da 58 nazioni. Gli italiani sono 26, quasi tutte donne, 180 le prime partecipazioni nella Mostra Internazionale, 1433 le opere e gli oggetti esposti, 80 le nuove produzioni, con sette installazioni site-specific. Per la prima volta negli oltre 127 anni di storia, la Biennale include una maggioranza preponderante di artiste donne, scelta che riflette un panorama internazionale di grande fermento creativo ed è anche un deliberato ridimensionamento della centralità del ruolo maschile nella storia dell’arte e della cultura attuali. “È stato un processo emerso in precedenza dalla mia pratica curatoriale di altri progetti – racconta Cecilia Alemani – Ho sempre lavorato con tante artiste donne, ma non ho mai escluso nessuno per sesso o genere”.

Il progetto è focalizzato in capsule storiche, del tempo, delle micro-mostre che forniscono strumenti di approfondimento e introspezione, intessendo rimandi e corrispondenze tra opere storiche (con importanti prestiti museali e inclusioni inusuali) e le esperienze di artiste e artisti contemporanei esposti negli spazi limitrofi.
Il discorso che nasce in queste capsule è centrato sul modo di rappresentare la figura femminile – precisa la curatrice – Ho fatto un lavoro di recupero di artiste donne, che erano vicine ad alcune delle grandi avanguardie del Novecento, come il surrealismo, il futurismo o il Bauhaus, ma sono state cancellate dalla storia dell’arte. In questa sezione sono esposte solo donne, mentre nel resto della mostra c’è una maggioranza di artiste: ma perché no, visto che non è mai stato un problema fare una mostra con la maggioranza di artisti uomini?“.

La prima delle cinque capsule nella sala sotterranea del Padiglione Centrale presenta una raccolta di opere di artiste delle avanguardie storiche dimenticate o poco conosciute, tra cui Eileen Agar, Leonora Carrington, Claude Cahun, Leonor Fini, Ithell Colquhoun, Loïs Mailou Jones, Carol Rama, Augusta Savage, Dorothea Tanning e Remedios Varo. Dalle opere di queste e altre artiste dei primi del Novecento emerge un dominio del meraviglioso, nel quale anatomie e identità sono trasformate seguendo le tracce di desideri di metamorfosi ed emancipazione.

Solo descrivendo questa mostra storica Alemani ammette di avere fatto una scelta femminile, negando che il termine possa essere utilizzato per descrivere l’intera esposizione; come ribadisce nell’affermazione “non è una Biennale al femminile, perché ho cercato di mettere insieme una pluralità di voci e che siano state di più quelle delle donne è un caso“.

La capsula ispirata alla “Materializzazione del Linguaggio” è una retrospettiva dell’arte femminile allestita alla Biennale Arte nel 1978, una delle prime rassegne apertamente femministe nella storia dell’istituzione. Al centro di questa presentazione tematica ci sono le relazioni che intrecciano corpi e linguaggio. La scrittura visiva e le poesie concrete di Mirella Bentivoglio, Tomaso Binga, Ilse Garnier, Giovanna Sandri e Mary Ellen Solt sono messe in dialogo con esperimenti di automatismo e scrittura medianica di, tra le altre, Eusapia Palladino, Georgiana Houghton e Josefa Tolrà, e con forme di scrittura femminile che spaziano dagli arazzi di Gisèle Prassinos alle micrografie di Unica Zürn.

Il lavoro critico e curatoriale di Mirella Bentivoglio è da celebrare – sottolinea Cecilia Alemani – perché negli anni ’70 ha insistito nel voler fare mostre che presentassero artiste nel campo della poesia visiva. C’erano tante artiste brave che venivano sempre escluse dalle grandi retrospettive di poesia concreta negli stessi anni, e lei aveva un approccio pragmatico. Se prima del suo lavoro c’era il 2% di rappresentazione femminile, dopo tanti anni in cui mostrava il lavoro di colleghe la percentuale è salita al 20%: è una questione del sessismo generale che invade la società, ma mancavano anche informazioni che c’erano artiste talentuose“. E anche le altre capsule rintracciano artiste omesse dal canone, come la inuit Shuvinai Ashoona (disegna a matita).

Le artiste in mostra 

Il resto della mostra affronta la rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi: le forme mutanti messe in scena da Aneta Grzeszykowska, Julia Phillips, Ovartaci, Christina Quarles, Shuvinai Ashoona, Sara Enrico, Birgit Jurgenssen e Andra Ursut  immaginano nuove combinazioni di organico e artificiale, concepite come possibilità di reinvenzione del sé e come inquietanti premonizioni di un futuro sempre più disumanizzato.

I rapporti che legano esseri umani e macchine sono analizzati negli esperimenti di Agnes Denes, Lillian Schwartz e Ulla Wiggen o nelle superfici-schermo di Dadamaino Laura Grisi e Grazia Varisco, le cui opere sono raccolte in un’altra capsula dedicata all’Arte Programmata e all’astrazione cinetica degli anni Sessanta. Segni e linguaggi affiorano anche nelle opere di diverse artiste contemporanee quali Bronwyn Katz, Sable Elyse Smith, Amy Sillman e Charline von Heyl, mentre i quadri tipografici di Jacqueline Humphries sono messi in relazione con i grafemi di Carla Accardi e con il linguaggio-macchina che informa le opere di Charlotte Johannesson, Vera Molnár e Rosemarie Trockel.

In contrasto con questi scenari ipertecnologici, i quadri e gli assemblage di Paula Rego e Cecilia Vicuña inventano nuove simbiosi tra animali ed esseri umani, mentre Merikokeb Berhanu, Mrinalini Mukherjee, Simone Fattal e Alexandra Pirici tessono narrazioni nelle quali preoccupazioni ambientaliste e antiche divinità ctonie si combinano per creare nuove mitologie ecofemministe.

All’Arsenale l’esposizione si apre con l’opera dell’artista Belkis Ayón, che influenzata da tradizioni afrocubane descrive un’immaginaria comunità matriarcale. La riscoperta della dimensione mitopoietica dell’arte è apparente anche nelle grandi tele di Ficre Ghereyesus e nelle visioni allucinate di Portia Zvavahera, nonché nelle composizioni allegoriche di Frantz Zéphirin e di Thaao Nguyen Phan, che nelle loro opere intrecciano storia, sogno e religione.

Molte artiste e artisti in mostra esaminano nuovi e complessi rapporti con la Terra e la natura, ipotizzando inedite possibilità di convivenza con altre specie e con l’ambiente. Il video di Eglė Budvytytė racconta di un gruppo di giovani persi nelle foreste della Lituania, mentre i personaggi nel nuovo video di Zheng Bo vivono in una comunione totale (anche sessuale) con la natura. Un simile senso di incanto meraviglioso ritorna nelle vedute innevate ricamate dall’artista Sami Britta Marakatt-Labba. La riscoperta di tradizioni millenarie si sovrappone a nuove forme di attivismo ecologista anche nelle opere di Sheroanawe Hakihiiwe e nelle composizioni oniriche di Jaider Esbell.

Al principio delle Corderie si colloca un’altra capsula storica questa volta ispirata agli scritti dell’autrice di fantascienza Ursula K Le Guin e alla sua teoria della narrazione che identifica la nascita della civiltà non nell’invenzione delle armi, ma negli oggetti utili alla raccolta al sostentamento e alla cura: borse, sacche e contenitori. In questa presentazione i carapaci ovoidali dell’artista surrealista Bridget Tichenor sono accostati alle sculture in gesso di Maria Bartuszov , alle sculture sospese di Ruth Asawa e alle creature ibride di Tecla Tofano. Queste opere storiche convivono accanto ai vasi antropomorfici di Magdalene Odundo e ai quadri di fisionomie concave di Pinaree Sanpitak, mentre la videoartista Saodat Ismailova racconta di celle di isolamento sotterranee che fungono da luoghi di fuga e spazi di meditazione. L’artista colombiana Delcy Morelos, che nelle sue opere si ispira alle cosmologie delle popolazioni delle Ande e dell’Amazzonia amerindia presenta una grande installazione ambientale, nella quale costruisce un labirinto di terra.

La parte finale delle Corderie è introdotta dalla quinta e ultima capsula storica dedicata alla figura del cyborg. Questa presentazione riunisce artiste che nel corso del Novecento hanno immaginato nuove combinazioni tra l’umano e l’artificiale creando gli avatar di un futuro postumano e postgender. Questa capsula include opere d’arte, artefatti e documenti di artiste di inizio Novecento tra cui la dadaista Elsa von Freytag-Loringhoven, le fotografe Bauhaus Marianne Brandt e Karla Grosch e le futuriste Alexandra Exter, Giannina Censi e Regina. In questa sezione le sculture delicate di Anu Poder rappresentano corpi frammentati in contrasto con i monoliti di Louise Nevelson, le figure totemiche di Liliane Lijn, le macchine di Rebecca Horn e i robot dipinti di Kiki Kogelnik. “Anche in questa capsula la riflessione – descrive Alemani – è rileggere il lavoro di alcune artiste degli anni 20 e 30, associate al Dada e al Bauhaus. Sono movimenti che provavano grande fascinazione per la tecnologia, la contaminazione di forma tra il design e l’arte, ma avevano lasciato fuori tante artiste che a volte erano partner degli artisti maschi. Altre volte non sono mai stati scritte nella storia dell’arte, ma hanno fatto un lavoro interessante e predatato”.

Attraversata la grande installazione diafana di Kapwani Kiwanga, nelle ultime campate delle Corderie la mostra prosegue con tonalità fredde e sintetiche, nelle quali la presenza umana è sempre più evanescente, sostituita da animali e creature ibride o robotiche. Le sculture biomorfe di Marguerite Humeau, ad esempio, ricordano esseri criogenici che si contrappongono ai monumentali esoscheletri di Teresa Solar. Raphaela Vogel descrive un mondo in cui gli animali prendono il sopravvento sull’uomo, mentre le sculture di Jes Fan usano materiali organici come melanina e latte materno per creare nuove culture batteriologiche.

Scenari apocalittici di cellule impazzite e incubi nucleari affiorano anche nei disegni di Tatsuo Ikeda e nelle installazioni di Mire Lee, animate dai movimenti concitati di una macchina che ricorda il sistema digestivo di un animale. Il nuovo video della pioniera del postumano Lynn Hershman Leeson celebra la nascita di organismi artificiali, mentre la coreana Geumhyung Jeong gioca con corpi ormai completamente robotici e componibili a piacimento.

Altre opere oscillano tra tecnologie obsolete e nuovi miraggi del futuro. Le fabbriche abbandonate e i macchinari fatiscenti di Zhenya Machneva trovano una nuova vita nelle installazioni di Monira Al Qadiri e Dora Budor che vibrano e roteano come macchine celibi. A chiudere questa infilata di meccanismi impazziti, una grande installazione di Barbara Kruger concepita appositamente per gli spazi delle Corderie combina slogan, poesia e linguaggi-oggetto in un crescendo di ipercomunicazione. Negli spazi esterni dell’Arsenale completano la mostra i grandi interventi di Giulia Cenci, Virginia Overton, Solange Pessoa, Wu Tsang e Marianne Vitale, che accompagnano lo spettatore fino al Giardino delle Vergini, in una passeggiata tra forme animali, sculture organiche, rovine industriali e paesaggi stranianti.

Negli interminabili mesi di pandemia passati di fronte a uno schermo, Cecilia Alemani (classe 1977, da anni trapiantata a New York e dal 2011 capocuratrice di High Line Art) si è chiesta quale fosse la responsabilità dell’Esposizione Internazionale d’Arte. La risposta che si è data è che la Biennale assomiglia a tutto ciò di cui ci siamo dolorosamente privati in questi ultimi due anni: la libertà di incontrarsi con persone da tutto il mondo, la possibilità di viaggiare, la gioia di stare insieme, la pratica della differenza, della traduzione dell’incomprensione e quella della comunione
“Il latte dei sogni” non è una mostra sulla pandemia, ma registra le convulsioni dei tempi. “In questi momenti, come insegna la storia della Biennale di Venezia – conclude Cecilia Alemani – l’arte e gli artisti ci aiutano a immaginare nuove forme di coesistenza e nuove, infinite possibilità di trasformazione“.

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