Da due anni ormai parliamo di nuove abitudini, di come la pandemia ci abbia fatto cambiare percorsi e routine, e infine di come siamo riusciti a continuare a “fare” in un mondo completamente nuovo, in cui la tecnologia ha preso il sopravvento anche nelle relazioni: rendendole possibili, governandole, trasformandole.
Come sempre succede nelle crisi, è avvenuto perché doveva ed è avvenuto in emergenza: siamo stati bravi, resilienti, focalizzati, adattabili, mentalmente agili. Abbiamo confermato la capacità che contraddistingue la nostra specie, famosa per essere tra le “fittest” in Natura, secondo la nota definizione di Darwin: e fittest vuol dire proprio “più adatta”, anche se in italiano l’abbiamo tradotto con “più forte”. Nelle nuove modalità di lavoro non siamo annegati: ci siamo invece adattati, cambiando tutti i punti di riferimento, e abbiamo stabilito nuove convenzioni. Ma forse non ci siamo accorti di quanto le abbiamo già fatte nostre. Due anni sono un periodo lungo e la crisi è ancora qui: siamo ancora in modalità “emergenza”, ancora in allerta, anche senza saperlo, e quindi reattivi e stanchi, irritabili, poco inclini al compromesso.
Diciamocelo, perché siamo in procinto di cambiare di nuovo. Lo stiamo già facendo, e la “prossima fase” arriva come un’evoluzione della precedente: tirando una corda che sembrava già tesa allo stremo in un movimento che per nessuno sa di “ritorno alla normalità”. Per questo, nonostante il momento storico, di questo dovremmo parlare di più, e forse anche con più leggerezza. Ma la prima cosa (parlarne) è precondizione della seconda (farlo con leggerezza): qualcosa di cui si può ridere, infatti, smette di essere un tabù, mentre intorno ai tabù si addensano le rigidità del non detto, delle cornici strette in cui la realtà attuale non passa più ma: “sssshhh, non si può dire”, come ben sa l’imperatore che andò in giro nudo per un bel po’.
Ed è un articolo di Bartleby sull’Economist a farmi venire voglia di scoperchiare questo vaso di pandora: per provare a sorridere delle abitudini che sarà difficile perdere o riacquistare, ma che potrebbero diventare il tessuto di nuove conversazioni e la base per riallacciare relazioni e ricostruire linguaggi che da molto tempo non frequentiamo più. Ecco quindi alcune abitudini che il ritorno in presenza ci obbligherà a riprendere, insieme a qualche suggerimento per accompagnare con un sorriso l’addio a vizi e virtù del lavoro da remoto.
1) Toglierci la tuta (o, in molti casi, il pigiama) dalla parte inferiore del corpo. Bartleby parla proprio di “rimettersi i pantaloni”, immaginando che in molti abbiano passato le giornate di remote working addirittura in mutande (e qualche incidente di percorso gli dà ragione): tornando in ufficio dovremo ricominciare a preoccuparci di come appariamo dalla vita in giù, scarpe comprese.
Ma due anni di “casual Friday” continuativo, cinque giorni su cinque, in che modo avranno cambiato il modo in cui vogliamo presentarci a colleghi e clienti?
Tornando negli uffici, annotiamo in noi e negli altri la presenza di nuovi stili o l’evidente affaticamento nel “rientrare nei ranghi” e parliamone con empatia: forse è l’occasione giusta per dare una rinnovata al guardaroba o, meglio ancora, al dress code da ufficio che ci sembrava tanto antico già prima del covid.
2) Restare attenti per tutto il tempo di una riunione, almeno in apparenza. Alzi la mano chi in questi anni, durante un meeting online, non ha fatto anche molto altro, continuando a fissare diligentemente lo schermo. Beh, tornati nella stessa stanza sarà più difficile perché, se mentre qualcuno parla apriamo il PC e leggiamo la posta, potrebbe notarsi ed essere interpretato come disinteresse. Saranno quindi 30 (o 60 o anche più, se riprenderanno presto o tardi le riunioni fiume del pre-covid) minuti di mono-tasking: un solo argomento, sempre quello, niente browsing, niente varietà, niente “telecamera spenta perché ho poca banda”, ma presenza, quantomeno fisica, e anche statica, senza andare in giro tra cucina e salotto per caricare intanto una lavapiatti e farsi un caffè.
3) Nella presenza, ecco forse la sfida più grande che ci aspetta, e qualcuno se ne sta già accorgendo con le prime riunioni di persona: tornare ad avere un contatto visivo. Non c’è stato, da remoto. Vedevamo gli altri, gli altri vedevano noi, ma non ci guardavamo mai negli occhi. Si chiama “contatto” visivo perché tra gli esseri umani attraverso gli occhi avviene una comunicazione così intensa che l’effetto è quello di toccarsi fisicamente. Spesso siamo costretti a sovraffollare lo sguardo di parole e altri movimenti proprio per attutirne l’effetto di intimità, di domanda e di comunicazione silenziosa e potente. Tornando in ufficio, forse non ricominceremo a darci la mano, ma ricominceremo inevitabilmente ad abbracciare lo sguardo degli altri con il nostro, e non sarà subito facile.
Esiste un manuale d’istruzioni, una durata giusta che può aiutarci in questi primi scambi, mentre ritroviamo il tempo ottimale per ognuno di noi?
Secondo Bartleby sì: guardiamo gli altri negli occhi per tre secondi, di meno indicherebbe disagio, di più sarebbe troppo intenso. L’importante, spiega il giornalista, è non contare a voce alta mentre lo si fa.
Incontrarci ci farà stare meglio: siamo una specie eusociale, abbiamo bisogno di stare insieme e di fare parte di una comunità – e no, incontrarsi online non basta, con buona pace del multiverso. Ma non avverrà per caso né per fortuna: più ci autorizziamo a parlarne e a cercare insieme nuovi modi, più sapremo che non siamo i soli nella stanza a sentirci a disagio per delle apparenti sciocchezze. Parlarne (e riderne) ci libererà dalla minaccia dello stereotipo, dandoci più risorse mentali per fare fronte alla fatica che comunque cambiare (di nuovo) porterà con sé.
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