Il racconto della violenza che fa male alle vittime

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Qual è il ruolo dell’infotainment nella narrazione della violenza contro le donne? La televisione resta tutt’oggi il primo media di fruizione delle notizie e nei programmi in cui l’informazione si unisce all’intrattenimento il rischio della spettacolarizzazione del dolore è tuttora alto, quotidianamente.

Un esempio per tutti, per capire di cosa parliamo: un popolare programma di intrattenimento pomeridiano di Canale 5, Pomeriggio 5, all’inizio del 2017 ha ospitato e intervistato una giovane donna a cui il fidanzato ha dato fuoco con benzina e accendino. La ragazza, nel corso dell’intervista con la conduttrice Barbara d’Urso, aveva difeso a spada tratta il fidanzato, negando le evidenze, parlando del fatto che lui “le aveva anche dato i soldi per divertirsi quella sera” e che anche lei “era una tipa particolare e violenta”. La conduttrice nel corso dell’intervista, cercando di convincere la ragazza della di lui colpevolezza, sottolineava anche con toni molto enfatici che “a volte per amore” si fanno cose anche terribili. L’irruzione della madre della giovane in studio, le proteste di lei che voleva restare in tv, l’evidente stato di disagio e di confusione della ragazza che riusciva anche con difficoltà ad esprimersi e l’intero impianto dell’intervista hanno provocato polemiche e reazioni fortissime. La stessa conduttrice è intervenuta più volte a spiegare che il suo intento era proprio quello di contrastare la violenza sulle donne, di mostrare l’orrore. Tuttavia, lo stato di disagio della ragazza era evidente, l’enfasi sulla storia passionale e sulla relazione tra i due notevole, con un risultato di spettacolarizzazione della violenza che non ha fatto altro che rendere vittima due volte la ragazza.

Un ulteriore esempio su cui si è più volte concentrata l’analisi della trattazione dei casi di violenza è la trasmissione “Amore criminale”, in onda dal 2007 su RaiTre. Nato con lo scopo dichiarato di combattere la violenza contro le donne, il format già nel titolo manda messaggi contrastanti e rischiosi. Siamo qui nell’ambito del factual entertainment, più che dell’infotainment. Pur in prima linea da anni nella denuncia del femminicidio, scrive la sociologa Elisa Gnomi nel libro “Relazioni brutali”, la trasmissione lo rappresenta come «incidente di vita», malattia da cui una relazione di coppia può essere affetta. “Amore criminale” viene esaminato con attenzione nello studio pubblicato all’inizio del 2021 “The mediatization of femicide: a corpus-based study on the representation of gendered violence in Italian media” (Lucia Busso, Claudia Roberta Combei, Ottavia Tordini, 2021), che compie un’analisi attenta del linguaggio utilizzato e dei gesti prevalenti. Tutti gli episodi di “Amore criminale” contengono parti di docu-fiction e includono la lettura di materiale di tipo legale, le autrici hanno individuato tre tipologie di episodio. La prima vede la donna vittima di femminicidio, uccisa dal partner o ex, raccontata con interviste ai familiari, amici e colleghi di lavoro, così come a forze di polizia e legali coinvolti nel caso. Altri episodi raccontano la storia di donne sopravvissute agli abusi fisici e psicologici del partner, in questo caso vengono intervistate direttamente e condividono le loro emozioni ed esperienze. In altri episodi, infine, vengono intervistati uomini violenti e maltrattanti che sono in recupero in centri specifici. A loro viene chiesto di raccontare la loro esperienza e di descrivere l’escalation della brutalità contro le loro partner. Nel caso degli episodi che raccontano la storia degli uomini maltrattanti, le autrici notano che questi uomini adottano schemi che suggeriscono una collocazione della violenza al di fuori della propria dimensione morale. Troviamo qui spesso il raptus, come se qualcosa di esterno si fosse improvvisamente impadronito di loro, tanto da non riuscire a controllare il loro comportamento. Inoltre, la narrazione si sofferma a lungo sul fatto che la maggior parte di loro racconta di aver subito e di essere stati vittima di traumi di violenza, che hanno lasciato una traccia permanente nella loro personalità. Da un lato sembra quindi come questi uomini stiano ancora cercando una giustificazione esterna alla violenza, dall’altro dalle interviste si deduce che abbiano invece una profonda consapevolezza di quel che hanno inflitto alle loro vittime, visto che hanno deciso autonomamente di seguire un percorso psicologico in centri di riabilitazione specializzati.

Sale l’attenzione sulla “Tv del dolore”
I due esempi presentati aiutano a capire quanto forti siano i rischi di inserire la cronaca nera e in particolare la violenza sulle donne in un contesto che dovrebbe essere di intrattenimento o di fiction. L’attenzione sulla “Tv del dolore”, in questi ultimi anni, è cresciuta molto, con richiami sempre più forti, vista sempre la maggiore presenza di queste trasmissioni nei palinsesti. In una approfondita ricerca sulla “Tv del dolore” realizzata dall’Osservatorio dei media di Pavia con l’Ordine dei giornalisti nel 2014, ricerca che ha fatto scuola, sono stati analizzati i principali programmi di infotainment e si è visto come l’attenzione alla cronaca nera copra in media circa 100 ore al mese, come i programmi si concentrino tutti sui casi ritenuti emblematici (serializzazione). Nella maggior parte dei casi le vittime erano donne. Tra le criticità evidenziate, l’Osservatorio cita l’enfasi elevata sulla partecipazione emotiva da parte di conduttori, inviati e ospiti, la commistione di ruoli degli ospiti tecnici (esperti indipendenti e al contempo consulenti di parte) e la ridondanza di informazioni e opinioni sui casi di cronaca più noti (information/opinion overflow).

Pur non avendo una prospettiva di genere, l’indagine mette in evidenza come le donne siano raffigurate prevalentemente come vittime passive e i loro ritratti siano spesso accompagnati da luoghi comuni e stereotipi di genere. “Si cita l’amore cieco di vittime verso il proprio carnefice – si legge nella ricerca – si accentuano discussioni su ipotetici moventi passionali, si offrono profili psicologici di donne divorate dalla passione, si indaga sul passato affettivo di donne uccise o scomparse in cerca di amicizie e amanti pericolosi. E non mancano giudizi sulla moralità delle donne coinvolte in casi di tradimenti o di prostituzione. Infine, alcune descrizioni macabre e voyeuristiche di violenze sessuali appaiono del tutto fuori luogo”. Stessa attenzione indesiderata e inopportuna viene riservata ai figli delle vittime, anch’essi coinvolti loro malgrado nello show e diventati protagonisti anche televisivi. Se la ricerca risale ormai a qualche anno fa, c’è da dire che i programmi esaminati sono (quasi) tutti ancora in onda: in particolare si tratta di Storie Vere, Pomeriggio Cinque, La Vita in diretta, Mattino Cinque, Quarto Grado, Chi l’ha visto?, Amore Criminale, I Fatti Vostri, Uno Mattina e Domenica Live.

Certo, l’attenzione alla corretta trattazione della violenza di genere in questi anni è aumentata e molto lavoro è stato fatto: evidenti miglioramenti ci sono nell’analisi di monitoraggio di rappresentazione della figura femminile realizzata dalla Rai nel 2020, dove emerge come la violenza di genere sia l’ambito di riferimento che ha maggiormente coinvolto i programmi che hanno fatto riferimento a questioni di genere e pari opportunità. Violenza fisica (57,5%) e femminicidio (40%) sono i temi maggiormente affrontati insieme alla violenza psicologica (35,6%), allo stupro (21,9%) e alle molestie sessuali (16,1%). Spesso gli argomenti vengono trattati insieme all’interno di trasmissioni quali talk show di approfondimento informativo o anche di fiction come nel caso di “Bella da Morire” (RAI 1, marzo 2020), che è stata evidenziata come best practice. I risultati mostrano che passi avanti ne sono stati fatti, ma la strada da fare è ancora molta: nelle trasmissioni esaminate, nel 70,5% dei casi l’autore non viene deresponsabilizzato o giustificato e nel 58,3% la violenza non viene né minimizzata né normalizzata. Nel 50,6% del campione la vittima non viene corresponsabilizzata né rivittimizzata e nel 25% la violenza non viene in alcun modo spettacolarizzata. Nel 49,3% dei casi è tutta la trasmissione in generale a proporsi in maniera costruttiva rispetto alla narrazione della forma di violenza di genere, ma va sottolineato come questa sia poi materialmente appannaggio della conduzione, che nel 42,3% del campione interviene come attore principale della buona pratica. In soli 2 casi sul totale di 1.268 trasmissioni analizzate relativamente alla rappresentazione della figura femminile, la trattazione della violenza è avvenuta in qualche misura in maniera non completamente adeguata. In altri sparuti casi in cui vi sono stati frammenti di trasmissioni/fiction nei quali la rappresentazione della violenza di genere è apparsa non adeguata, “la narrazione ha sempre dato prova, nel suo complesso, di saper riequilibrare ogni potenziale nocumento”. L’attenzione sul tema, quindi, è alta ma molto lavoro c’è ancora da fare. In questa direzione vanno i recenti richiami dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, del Garante per la Privacy e le indicazioni dell’Ordine dei giornalisti.

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Questo brano è tratto dall’ebook #hodetto no. Quando la donna è vittima due volte, scaricabile gratuitamente dal sito del Sole 24 Ore.

L’ebook è stato realizzato nell’ambito del progetto Never again, che ha come obiettivo quello di contrastare e combattere la vittimizzazione secondaria delle donne colpite dalla violenza.

NEVER AGAIN  è un progetto co-finanziato dal Programma Diritti, Uguaglianza e Cittadinanza dell’Unione europea (2014-2020), GA n. 101005539. I contenuti di questo articolo sono di esclusiva responsabilità degli Autori e non riflettono il punto di vista della Commissione europea.

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