Ha ancora senso parlare di equilibrio vita-lavoro?

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Prima la chiamavamo conciliazione lavoro-famiglia, poi ci siamo resi conto che non tutte le persone hanno una famiglia o dei figli, ma che chiunque ha il diritto di evitare il conflitto tra vita privata e lavorativa. Siamo quindi passati a parlare di work-life balance perché l’equilibrio rendeva meglio l’idea e perché la vita viene ancora prima di mariti, mogli e bambini. Oggi, leggo della proposta di Arianna Huffington, fondatrice di HuffPost e Thrive, che invita a parlare di life-work integration. La vita va posta prima del lavoro e la mancanza di equilibrio può esserci, ma è necessario che ci sia integrazione.

Eppure, ricordo un momento in cui si era iniziato a diffondere la formula life-integration, con l’obiettivo di sottolineare il fatto che la persona è una e che il lavoro fa pur parte della vita, quindi perché creare la dicotomia? Il ragionamento sembra filare, eppure ci sono aspetti che vanno tenuti in considerazione e che permettono di riflettere sulle dimensioni in gioco, al di là dell’etichetta che si sceglie di adottare. Un’azienda attenta alle proprie persone, infatti, è chiamata a rispettare i loro bisogni e le loro esigenze, a prescindere da come decida di chiamare le iniziative che mette in campo per farlo.

Allo stesso tempo, il linguaggio struttura il modo che abbiamo di vedere il mondo e, quindi, di comportarci. Ecco perché diventa comunque importante chiamare le cose con il loro nome. Parlare di vita e lavoro, a prescindere dall’ordine che si sceglie di utilizzare, crea una spaccatura. In un certo qual modo ripercorre il vecchio adagio “prima il dovere, poi il piacere”. È come se si dicesse che da una parte c’è il lavoro, dove si stringono i denti, e dall’altro tutto ciò che succede dopo le 18 e nel weekend. Come se la vita stessa esistesse solo prima o dopo la giornata lavorativa e durante i giorni festivi.

Una riflessione che molto spesso si fa è quella del peso specifico del proprio lavoro, ossia quanto, a prescindere dall’impegno e dagli orari, la propria professione piace. Come recita la celebre frase attribuita a Confucio “Fai il lavoro che ami e non lavorerai un solo giorno in tutta la tua vita”. La soluzione, però, non è nemmeno qui. Altrimenti, avrebbero la fortuna di “non lavorare” e godersi la vita solo una ristretta e fortunata cerchia di persone. Quando invece per la maggior parte il lavoro è una necessità e non una scelta. Nonostante ciò – e anzi, alla luce di ciò – credo fermamente che sia corretto parlare di life-integration, restituendo alle persone la dignità di una vita e di un’esistenza complessa, sfaccettata e a 360 gradi. È troppo facile separare vita e lavoro. Molto più difficile, accettare e riconoscere il fatto che la vita sia una e che, come tale, sia composta da diversi aspetti, ruoli e attività. E che tanto durante le ore lavorative, quanto al di fuori, sia essenziale stare bene.

La grande sfida delle aziende non è allora quella di conciliare o trovare un equilibrio tra vita e lavoro, rendendo meno stressante quest’ultimo e più semplici gli impegni o le questioni familiari o personali, quanto, piuttosto, guardare alle proprie persone con sguardo d’insieme. Se pensiamo alla difficoltà che aspetti come emozioni, vissuti, orientamenti sessuali, identità di genere e funzionamenti neurologici hanno nel potersi esprimere in azienda, ci rendiamo conto di quanto si debba ancora lavorare proprio sull’interezza. La salute psicologica a lavoro passa anche da qui, ossia dal sentire che ci viene restituita la giusta complessità come esseri umani, ognuno e ognuna con le proprie necessità e bisogni. Non siamo vita da una parte e lavoro dall’altra, siamo persone.

Ecco allora che forse, se volessimo continuare il dibattito su quale dicitura sia più corretto utilizzare, faccio la mia proposta: person integration. Volutamente al singolare, perché i miei bisogni sono diversi dai tuoi. Un’espressione che, non a caso, richiama uno dei principali aspetti che concorrono alla salute mentale e su cui la psicologia lavora: il riuscire a integrare i diversi aspetti di sé.

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  • Riccardo Baldinotti |

    Si trattano due argomenti, confondendoli. Un conto è che nell’ambiente lavorativo sia tenuto conto del fatto che i dipendenti sono esseri umani; un conto è il fatto che, al di là di compiere operazioni chiamate ‘lavoro’ restino tempo ed energie per altre operazioni, su cui un datore di lavoro non deve mettere il becco. Il concetto di ‘integrazione vita-lavoro’, oltre al cospicuo vantaggio di non essere espresso in americanese, non è primitivo rispetto agli anglicismi proposti, ma il punto dolente delle molte donne strangolate sia nel lavoro che in tutte le altre incombenze gettate solo su di loro (parlo in generale). Problema tuttora superato. Per fare star meglio chi lavora, tanto per cominciare, basterebbe smetterla di premiare gli yes-men (e women) e tutta la genia di incapaci messi a far danni nelle dirigenze pubbliche e private. Mi scuso per avere usato un solo termine americanese.

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