Siamo di nuovo in ufficio e può capitare di tornare a casa, specialmente adesso che fa buio presto, stanchi e di malumore. I pensieri di lavoro premono tutti sulle tempie perché, senza accorgercene, abbiamo passato la giornata trattenendo il respiro: il petto teso, il fiato corto. Il traffico non aiuta, e a peggiorare le cose c’è quella sottile sensazione di non aver fatto tutto: di aver lasciato in sospeso cose che potrebbero cadere o peggiorare prima di domani, o nella migliore delle ipotesi ripresentarsi tutte in fila alle prime luci del giorno.
Serve un cuscinetto che ci restituisca alle altre parti di noi un po’ meno intossicati, o la scossa elettrica che ci ha tenuti su fino a quel momento travolgerà il resto della giornata, consegnandoci a un sonno che non ristora e proiettandoci direttamente alla frenesia del giorno successivo. I più fortunati possono fare un salto in palestra, fare una corsa o una passeggiata, farsi rapire da un bel libro o da un bel film, staccare insomma. Chi però ha poco tempo (e lo sa fare), può usare la meditazione per segnare una distanza tra i momenti, per fare un punto e accapo.
E qui arriva la bella notizia: anche chi non sa o non vuole meditare, può ottenere dei benefici analoghi in un altro modo, e a dirlo sono proprio le neuroscienze. La scoperta l’ho fatta in un libro di Daniel Goleman e Richard Davidson su “La meditazione come cura”: qui gli autori parlano dei benefici che emergono dalla meditazione, spiegando come da questa derivi in modo immediato un rafforzamento della capacità di provare compassione (empatia, diremmo noi), e da questa si arrivi a un maggiore senso di benessere:
“Assieme alla compassione si attiva anche il circuito cerebrale per la felicità. La gentilezza amorevole rafforza le connessioni tra i circuiti del cervello per la gioia e la felicità e la corteccia prefrontale, una zona critica per quanto riguarda la guida del comportamento.
E, quanto più cresce la connessione fra queste regioni, tanto più una persona che segue l’addestramento alla meditazione di compassione diventa altruista”.
Meditare accende e allena quindi una capacità di compassione che ci fa bene, perché coinvolge gli stessi circuiti cerebrali che ci consentono di provare gioia. Attenzione però: si tratta di circuiti che sembrano “avvantaggiarsi di una predisposizione biologica, una prontezza intrinseca all’apprendimento di una determinata abilità”. Spiegano infatti gli autori:
“Come nel caso del linguaggio, il cervello umano sembra predisposto a imparare ad amare. Ciò sembra in gran parte dovuto al circuito cerebrale del prendersi cura, che condividiamo con tutti gli altri mammiferi”.
Ma, a questo punto della spiegazione, gli autori sembrano sovvertire l’ordine naturale delle cose: invitano infatti a usare la meditazione, “anche solo dei brevi periodi di addestramento alla compassione”, per rafforzare questo circuito. Dobbiamo quindi trovare del tempo per meditare, in aggiunta al resto, per sviluppare lo stato di benessere che la meditazione induce? In realtà no: l’attivazione, e quindi un’accresciuta agilità e muscolatura di questi circuiti cerebrali, funziona già in modo naturale in determinate circostanze, che guarda caso sono a nostra disposizione proprio quando arriviamo a casa stressati e bisognosi di “cuscinetti”.
Dicono infatti, anche se un po’ en passant, Goleman e Davidson:
“Il circuito cerebrale del prendersi cura è costituito dalle reti neurali che si attivano quando amiamo i nostri figli, i nostri amici e chiunque ricada all’interno del cerchio naturale delle nostre attenzioni amorevoli.”
Amando quindi, semplicemente, come sappiamo fare in modo naturale, otterremo lo stesso effetto benefico che ottiene chi medita bene e a lungo: staremo meglio e ci verrà più facile provare una sensazione di gioia nel vedere gli altri nell’occuparci di loro.
A un certo punto però, nella frenesia quotidiana, sembriamo aver dimenticato che amare e prenderci cura ci consente di provare gioia, e quando ci siamo accorti che ci mancava qualcosa abbiamo cercato soluzioni alternative: attività che producessero in noi quel benessere che però il nostro cervello conosce bene, perché lo frequenta da sempre attraverso l’amore.
Tornando a casa la sera dai nostri “carichi di cura” potremmo quindi vederli come dei meravigliosi maestri zen a costo zero: palestre insostituibili per la pratica di una gentilezza amorevole in grado di rafforzare le connessioni tra la nostra corteccia prefrontale e i nostri circuiti cerebrali per la gioia e la felicità. Si tratta solo di saperlo e di esserci, essere proprio presenti, quando avviene.
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