Violenza contro le donne, l’arma della prevenzione può fare la differenza

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Negli ultimi anni le forze dell’ordine hanno realizzato un importante lavoro di formazione sulla violenza di genere per evitare quella che viene chiamata vittimizzazione secondaria, quella situazione cioè in cui la donna che chiede aiuto si trova di fronte a minimizzazione, stereotipi, pregiudizi. Tutte forme che fanno parte – ancora – della cultura. Sono ancora troppe, infatti, le donne che chiedono aiuto e non vengono credute e sono tragicamente ancora troppe le donne vittime di femminicidio. Ne abbiamo parlato con Alessandra Simone, che è appena stata nominata Questore, già prima dirigente della Divisione Anticrimine della Questura di Milano dove si è occupata di soggetti deboli e ha ideato il Protocollo Zeus, un percorso di prevenzione esportato in molte province italiane e ora allo studio come esempio da seguire in tutta Europa.

Secondo lei a che punto è la consapevolezza degli operatori dell’ordine e quali punti critici ci sono ancora?
Sono stati fatti tanti passi avanti ma certo ci sono situazioni, spesso nei piccoli centri, dove c’è ancora molto lavoro da fare e non possiamo disinteressarcene. Dobbiamo fare in modo che questa conoscenza e consapevolezza venga spalmata su tutto il territorio, anche nelle piccole stazioni sperdute. Nelle forze dell’ordine e in particolare nella Polizia di Stato c’è un percorso che dura da oltre 20 anni, inizialmente sotto il profilo della repressione, poi della prevenzione, all’interno del quale nelle squadre mobili di tutta Italia è stata creata una sezione specializzata in violenze sessuali, in reati sui minori e sulle vittime vulnerabili, inclusi lo stalking e la violenza domestica. Qui il personale ha un bagaglio di conoscenze specifico e un’altra specializzazione. Ho diretto questa sezione a Milano dal 2004 al 2009 e posso dire che effettivamente la sua presenza può fare la differenza: essere specializzati significa saper accogliere le donne, come trattarle, si crea una collaborazione con loro alla ricerca della soluzione migliore. Questa tipologia di vittime porta ferite nell’anima oltre che nel corpo e quando collabora è perché si fida e si affida. 

Quanto è importante che una donna che denuncia violenza trovi subito accoglienza, interventi e difese adeguate?
E’ fondamentale o il rischio è che continui a sentirsi sola. E’ importante che venga supportata sempre in un centro antiviolenza, accompagnata verso la denuncia, con la cooperazione tra i centri e le Forze dell’ordine. Senza la denuncia, senza colei che ha subito anche nei casi in cui si può procedere d’ufficio, il percorso è ancora più difficile. In molti casi, per esempio, ci troviamo di fronte anche alla violenza psicologica, che lascia ferite profonde e le donne stesse spesso non sono consapevoli di ciò che stanno subendo. In quei casi occorre fare un lavoro lento e profondo, affinché venga compreso che isolare, svalutare, annientare un essere umano anche solo verbalmente, non è una forma di amore, non è un sentimento sano e equilibrato. Solo così le donne possono comprendere il proprio valore, ciò che meritano. 

Oltre alla repressione, quanto conta la prevenzione?
La repressione è un momento ultimo e residuale, speriamo di non arrivarci mai, il nostro lavoro è quello di fermare prima il maltrattante. In questi anni abbiamo lavorato molto sull’istituto dell’ammonimento del Questore, proprio per prevenire il reato, per bloccare una persona quando inizia a compiere il primo atto. Non solo il primo schiaffo, ma ancora prima: tutte le donne che entrano nei nostri uffici devono essere considerate in maniera attenta e profonda quando lamentano un disagio familaire. Per questo diamo indicazioni precise anche gli operatori che fanno il front office che devono ricevere tutti, dalla vittima di una rapina a quella di violenza di genere. Anche loro devono essere subito pronti ad accogliere le donne, per non perderle, per non trovarci di fronte a quel ‘Ma no, signora, torni a casa e faccia pace con suo marito’ che abbiamo sentito dire tante volte. In questo senso sono state diramate circolari importanti, istruzioni precise che spiegano che la violenza domestica non è un ‘affare di famiglia’, è una questione che ci riguarda tutti e tutte. E’ il superamento di una concezione ancora sbagliata ma ancora troppo diffusa in quei luoghi dove ancora non si è riusciti ad arrivare con una formazione adeguata.

In che modo si può prevenire?
Fin quando non capiremo che reprimere non serve ed è una sconfitta per tutti non faremo passi avanti. E sulla prevenzione che dobbiamo lavorare. Per esempio è fondamentale il percorso rieducativo del maltrattante. Ovvio che chi ha commesso un reato debba in primo luogo essere condannato, ma se a questa condanna non associamo un tentativo di recupero il maltrattantte, una volta che esce dal carcere, può tornare a indirizzare le sue attenzioni verso la stessa o un’altra vittima. Nella rete devono entrare tutti gli attori e per una tutela a 360 gradi della vittima dobbiamo passare per il tentativo di recupero del maltrattante.

E in questo senso sta facendo scuola il Protocollo Zeus: che risultati ha portato? Il Protocollo crea un percorso per i maltrattanti, di intesa con il Centro italiano per la promozione della mediazione, e li inviamo a seguire questo percorso. Dalla data di inizio, nell’aprile 2018 fino al 18 giugno 2021, il totale dei soggetti ammoniti a Milano è stato di 467 a Milano, di questi 416 sono stati inviati a seguire il percorso, perché gli altri risiedono fuori provincia. Il totale dei presentati è 329 (il 79% del totale), una percentuale elevata considerato il fatto che non lo possiamo imporre ma li possiamo solo invitare, li ammoniamo, li intimiamo di non continuare quella condotta. Lì svolgono un percorso trattamentale, non terapeutico, in cui diventano consapevoli della loro condotta. Di questi 329 trattati solo 32 hanno realizzato ulteriori condotte dopo l’ammonimento. Ovviamente sono soggetti che restano strettamente monitorati, ogni 2 mesi facciamo una verifica del protocollo col nostro partner e capiamo se c’è qualcosa da fare in più. Se possiamo incidere con una sorveglianza speciale, per esempio. Sono persone che vengono seguite da vicino. Rispetto alla tipologia delle condotte, 171 sono stati ammoniti per atti persecutori, 156 per violenza domestica e 2 per cyberbullismo.

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Cosa succede in questi percorsi e perché sono efficaci, come mostrano i dati?
In molti casi i maltrattanti minimizzano la loro condotta, dicono di non aver fatto niente di grave, non sono consapevoli della gravità dei loro atti. Ne parlano come di problemi di famiglia. Nella mia esperienza diretta della violenza in famiglia, il problema di questi soggetti è che il loro delirio di onnipotenza nasce e si fortifica a causa dell’impunità, anche perché spesso la vittima non si ribella o lo fa solo verbalmente. Il messaggio è che il loro agire rimane impunito aumentano sempre di più il tiro. Quando c’è uno stop, invece, iniziano a capire che qualcosa non va e si sentono destabilizzati, ancora di più se vengono sottoposti a un percorso con uno specialista.

In quali altre realtà è stato esportato il Protocollo Zeus?
Al momento in altre 16 Province italiane oltre Milano, i colleghi e le colleghe coni quali mi sono confrontata sono soddisfatti, hanno avviato percorsi, strutturato uffici e personale in maniera da avere i milgliori risultati possibili, concreti e incisivi. Adesso abbiamo anche in essere un percorso per un progetto europeo: l’Europa sta guardando con interesse al Protocollo e Milano è la Questura pilota. 

Nella sua esperienza quanto è importante un buon coordinamento tra tutti gli operatori che si occupano dei casi di violenza maschile contro le donne (forze dell’ordine, magistratura, operatori sanitari, centri antiviolenza, assistenti sociali, etc)? Esiste questo coordinamento, c’è un lavoro di squadra?
Ognuno deve fare bene il suo pezzo, nel miglior modo possibile, ogni anello deve funzionare a dovere e non è ancora così, ma solo così la rete può funzionare davvero. E deve esserci un’interazione costante, uno scambio, ognuno deve sapere cosa fa l’altro, non possiamo arrivare per esempio al dibattimento senza aver afferto alla donna tutti gli strumenti indispensabili per affrontarlo. Gli stessi magistrati devono essere attenti, ascoltare bene, capire quando le argomentazioni sono insite nel cilo della violenza, come per esempio quando in aula viene portata dalla difesa una foto fatta un mese prima dell’episodio violento, in cui la coppia appare felice e armonica. Sappiamo che nel ciclo della violenza ci sono varie fasi, inclusa quella della luna di miele, come quella dell’intimidazione: se non conosciamo questi aspetti falliamo nel difendere le donne e ricadiamo nella vittimizzazione secondaria. Dobbiamo fare in modo che le donne non sentano che tutto è inutile, che chiedere aiuto non serve, l’ingranaggio deve funzionare al meglio. 

Quali sono secondo lei i nodi ancora da affrontare per combattere la violenza di genere?
È urgente snellire alcune procedure, come in parte ha fatto il Codice rosso, ma anche una serie di procedure operative in tema di allontanamento del maltrattante dalla casa familiare. Visto che non ci sono strumenti efficaci alla fine troppo spesso è la vittima a dovere lasciare la casa, servono strumenti piu cogenti. Altra cosa fondamentale, ma è al vaglio con un progetto di legge, istituitre un percorso (che non è terapeutico ma trattamentale) e renderlo obbligatorio, creando un sistema operativo per tutta l’Italia. Terza cosa fondamentale, a mio parere, partire dalle scuole: l’educazione deve parlare della parità di genere, devono venire fuori i problemi che già ci sono. Quanti figli di persone maltrattanti e vittime ci sono? Gli insegnanti hanno una visione completa sugli allievi e le loro famiglie, serve una collaborazione più stretta tra scuola e famiglia in questo senso. Ricordiamoci che la violenza domestica non è un affare di famiglia, è un problema della collettività, di tutti e di tutte, uomini e donne. Dai vicini di casa, agli operatori sanitari o di polizia, agli insegnanti.

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Il Sole 24 Ore, con Alley Oop, è partner del progetto Never again, che ha come obiettivo quello di contrastare e combattere la vittimizzazione secondaria delle donne colpite dalla violenza.

NEVER AGAIN  è un progetto co-finanziato dal Programma Diritti, Uguaglianza e Cittadinanza dell’Unione europea (2014-2020), GA n. 101005539. I contenuti di questo articolo sono di esclusiva responsabilità degli Autori e non riflettono il punto di vista della Commissione europea.

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  • ezio |

    “Violenza contro le donne, l’arma della prevenzione può fare la differenza”

    A nome soprattutto dei bambini e dei minori, propongo un doveroso aggiustamento del titolo:
    “Violenza contro le donne, l’ unica arma che può fare la differenza è la prevenzione.”
    Perché quando la frittata è fatta impossibile ricostituire le uova e la serenità dei figli.

  • gloria |

    OTTIMO INTERVENTO, CONCORDO PIENAMENTE

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