Una cassetta degli attrezzi abbandonata in corridoio dopo aver cambiato la bombola del barbecue: missione compiuta? Una lavapiatti piena a metà, o già mezza vuota? Punti di vista o questioni di genere?
Già più di trent’anni fa John Gray lo aveva spiegato in un libro molto divertente – diventato un cult – “Gli uomini vengono da Marte le donne da Venere”: uomini e donne hanno modi di pensare, di parlare e anche di comportarsi molto diversi. Prima regola quindi: non dare nulla per scontato. Non fulminiamolo con gli occhi perché non collabora nel preparare la cena, mentre noi cuciniamo con il pc di lavoro di fianco e il figlio – con relativi compiti – di fronte: non glielo avevamo chiesto abbastanza esplicitamente! I nostri partner sono spesso a-sincroni rispetto ai nostri bisogni e ai nostri ritmi serrati, forse anche perché tra le mura domestiche – lo dice la statistica – lavorano 1 ora e 48 minuti contro le oltre 5 ore che dedichiamo noi donne ai lavori di cura. Forse senza neanche rendersene conto.
Ma se fosse anche un po’ colpa nostra? Se dietro quel “bastava chiedere” – la frase che molte donne sono stufe di sentirsi dire, come ha illustrato bene la blogger e ingegnera informatica Emma – non ci fosse tanto (o solo) una scusa, ma una sincera incomprensione? La stessa di quando sempre lui – maldestro – chiede “posso aiutare?”. Perché come ha provocatoriamente spiegato la campagna di Ikea per l’8 marzo di quest’anno, quando dici “posso aiutare” stai dando per scontato che sia responsabilità primaria e principale della donna fare quella cosa, che sia stirare, fare il bucato o pulire.
E quindi? La seconda regola è: pazienta e sdrammatizza. “Aspetta, e sarai raccolto”, potremmo dire più a noi stesse che al calzino lanciato in mezzo alla camera, oppure “goditi il relax” alla tazza comodamente appoggiata sul divano. Perché se siamo aperte alle diversità e pratichiamo l’inclusione, dobbiamo anche accettare che le cose vengano fatte con modalità diverse dalle nostre. O no?!
Il problema non è (tanto) il come, ma il “quando”. In giapponese la parola pazienza – “ninitai” 忍耐 – significa anche nascondere la fatica, tollerare in silenzio le difficoltà, resistere all’ansia del tempo. Insomma, saper aspettare. Quanto, però? Qual è la soglia dopo la quale entrerà in azione? Ma – ancora più interessante – qual è la soglia della nostra resistenza, aspettando che lo faccia?
La terza regola è quindi: scopri il tuo limite di sopportazione ed esplicitalo. Se per esempio non resistiamo più di dieci minuti prima di raccogliere, riordinare, portare a termine la richiesta caduta nel vuoto, allora vuol dire che il limite di sopportazione è basso. Che siamo – nostro malgrado – l’altra metà, quella non sospesa ma operativa. Urge quindi in questo caso una programmazione di orari e mansioni su base giornaliera: basta saperlo, tutti e due, e organizzarsi. A quel punto però non c’è più “bastava chiedere” che tenga: come dice il vecchio detto “uomo avvisato, mezzo salvato“. Oppure potremmo scoprire di amare anche la sua poetica incompiutezza, tanto da praticarla a nostra volta. Finché casino non ci separi. Finché sarà lui, disperato, a trasformarsi in un “cavaliere del pulito”, ad intervalli regolari.
Perché i lavori domestici e familiari non ci competono per natura o per genere. Ma fino a quando continueremo a farli – lamentandoci sì, ma in fondo cedendo come se ci spettassero – non arriveremo mai a condividerli con chi ci sta di fianco. E saremo proprio noi a portare avanti quegli stereotipi che diciamo di voler combattere.
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