Tutte a casa: come hanno vissuto le donne durante la pandemia?

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Una ragazza mi ha detto: ti pare che metti i tuoi bimbi davanti alla televisione? La cosa più importante adesso è che noi non perdiamo la testa. E quindi se io ho bisogno di mettere i bambini davanti alla tivù per respirare lo faccio, senza sensi di colpa”.

Cosa è successo nelle nostre case durante i lockdown? Mentre il tempo della collettività era sospeso, tutte le nostre vite erano concentrate in pochi metri quadrati. Le case sono state il nostro mondo per diversi mesi, in ogni stanza abbiamo visto stratificarsi tutti i ruoli e le attività che compongono le nostre vite, si è creata una realtà parallela, a tratti angosciante, dove ci siamo sentiti allo stesso tempo invisibili ed esposti, resilienti e vulnerabili. È stato il tempo del paradosso, e l’unico modo per raccontarlo, come esperienza collettiva, è forse comporre un mosaico di singole esperienze. Questo è quello che prova a fare Tutte a casa – memorie digitali da un mondo sospeso: un documentario collettivo, composto da video girati con il proprio cellulare da donne di tutta Italia, di estrazione sociale ed età diverse, raccolti e sapientemente montati dal collettivo Tutte a casa, per la regia di Nina Baratta, Cristina D’Eredità, Eleonora Marino. 

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Un racconto collettivo

L’ideatrice del progetto è Cristina D’Eredità, che nel corso del primo lockdown, in un gruppo composto da professioniste dell’audiovisivo su Facebook, ha proposto di raccontare la pandemia dal punto di vista delle donne. Eleonora Marino, co-regista e montatrice, racconta: “Sui media in quei giorni ascoltavamo parlare prevalentemente uomini: virologi, politici, esperti. Le donne sembravano sparite e la nostra idea era proprio di dare loro voce”. Una voce ben titolata a raccontare cosa avveniva dentro le case, luogo che quasi per definizione è appartenuto per secoli alle donne. Un ristretto spazio d’azione, che con la quarantena ha assunto una valenza multifunzionale. È stato il luogo in cui l’idea di conciliazione famiglia/lavoro ci è esplosa addosso in tutta la sua impraticabilità, nel tentativo di far aderire decenni di emancipazione alla pressione dei vecchi modelli sociali.

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E forse è proprio ascoltando di più le donne e osservando i loro modelli di leadership, che si può pensare alle modifiche strutturali di cui avremmo bisogno per una vera parità occupazionale. Continua a raccontare Marino: “Grazie al post è nato un gruppo di lavoro, eravamo in 16, e ci siamo organizzate per sottogruppi. Siamo tutte professioniste dell’audiovisivo e della comunicazione e ognuna si è occupata del proprio campo di competenza. In 2 giorni abbiamo lanciato una call pubblica, aperto un sito, sottoscritto un manifesto, poi è stato lanciato un crowdfunding con Produzioni dal basso: la raccolta è durata 3 mesi e ha superato l’obiettivo di 15.000 euro. Ci siamo organizzate con naturalezza, la parola chiave dietro alla nostra modalità di lavoro era gentilezza. Volevamo cambiare la norma a cui siamo abituate, quella voglia di sopraffazione che nasce dalle gerarchie. Noi ci siamo date un senso di orizzontalità, dove la critica e la divergenza d’opinione doveva sempre avere una dimensione di rispetto e dialogo”. 

tac_check_color_v01_1-21Ma non è solo il modo di lavorare e fare gruppo a fare la differenza. Lo sguardo che ha raccolto e messo insieme i materiali è uno sguardo femminile, che Marino descrive così: “Uno sguardo che non si ferma all’apparenza, ma cerca di attraversare le contingenze, facendosi ampio, mettendo in relazione la propria esperienza con ciò che la circonda. È uno sguardo che pone attenzione sull’individuo e cura nelle relazioni”. È così che la narrazione diventa una discesa verticale nelle vite individuali, dove il singolo rimane sempre singolo senza mai spingersi verso un’universalità, raccontando allo stesso tempo come nello schema delle giornate, nella routine alienante, la salvezza è allontanarsi da se stesse e ritrovarsi negli altri, nella condivisione. Continua Marino: “La forza sta nella relazione con l’altro, le donne lo capiscono. Loro ci hanno mostrato che fare rete è una delle risorse che ci può salvare. Lo sguardo maschile si fermava all’emergenza, a risolvere i problemi circostanziati, non guardava al dopo, ai risvolti psicologici, alla perdita del lavoro, all’aggravarsi della condizione femminile di caregiver. Lo sguardo femminile in questo senso supera le contingenze: sostiene l’altro creando reti, grandi e piccole, dal condominio al gruppo di lavoro come il nostro. Nella varietà dei modi di vivere la quarantena che abbiamo osservato, anche nel turbamento e nella depressione, abbiamo visto tutte alla ricerca di un modo di trasformare questa chiusura in qualcos’altro”. 

Le testimonianze di 500 donne

tac9I video pervenuti erano più di 8000, da parte di 500 donne. Su questi materiali è stata eseguita una regia a distanza, come continua a raccontare Marino: “Abbiamo instaurato una relazione con molte, dai primi video che ci inviavano abbiamo proseguito dando indicazioni su come riprendere, su come offrire e approfondire il proprio sguardo. Più si andava avanti e più la condivisione diventava intima e profonda. Alcuni racconti ci hanno stupito molto: una ragazza che ha raccontato la morte del padre, una dottoressa anestesista in un reparto Covid. Per molte la noia era un privilegio. Alcune donne invece hanno lottato quotidianamente con la malattia, dai letti di casa, dalle corsie degli ospedali”. Nell’affresco disegnato dalle registe ci sono molte sfumature: la quotidianità delle commesse del supermercato, la dottoressa che si sveglia nella notte in preda all’ansia e agli incubi, la donna che in quarantena è riuscita a scappare da un compagno violento chiedendo aiuto a un Cav, la ragazza che vive in un seminterrato di 30 metri quadrati e dalla finestra vede le piastrelle del cortile e un pezzo di cielo. E poi ci sono i giochi sulle terrazze con i bambini, l’insegnante in DaD, la figlia che si prende cura della madre anziana, le feste di compleanno via WhatsApp, gli orti sui terrazzi, la solidarietà.

tac_check_color_v01_1-11La poesia del racconto che si dipana in questo film, non nasconde la valenza di denuncia che c’è dietro al progetto. Se le donne stanno pagando le conseguenze maggiori della pandemia, in termini occupazionali e di qualità della vita, forse è anche perchè sono state escluse dalle decisioni più importanti nella gestione pubblica dell’emergenza, come se non avessero opinioni né competenze utili. “Il livello di consapevolezza almeno è stato smosso” continua Marino, “non vuol dire che abbiamo la soluzione, ma qualcosa sta accadendo. Come nel mio settore. Il motivo per cui molti professionisti hanno avuto difficoltà ad accedere ai ristori, è anche dovuto al fatto che in questo ambiente i rapporti lavorativi sono falsati, spesso le partita iva sono in rapporto di subordinazione, c’è molto lavoro nero, senza contratti o con contratti irregolari. Almeno adesso se ne parla, si comincia a mettere in discussione il metodo e quel ‘si è sempre fatto così’ che è alla base dell’illegalità e insostenibilità”.

margot-sikabonyi1-attriceLe criticità sono emerse, da ogni punto di vista. Saremo capaci di ripensare e rigenerare il sistema? “La mia generazione ha un sapere da condividere” conclude Marino: “abbiamo messo in discussione molte delle cose che credevamo importanti, come il dover avere una stabilità prima di mettere su famiglia. Ora sappiamo che non c’è nulla da aspettare. Spesso invece sono proprio i figli che ci portano ad avere più determinazione e obiettivi più chiari nel costruire la nostra professionalità. Per noi che abbiamo fatto i figli a quarant’anni è chiarissimo il concetto: aspettare che le cose accadano o che le circostanze siano giuste, vuol dire perdere tempo”. 

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Il collettivo Tutte a casa è composto da: Federica Alderighi, Nina Baratta, Giovanna Canè, Maria Raffaella De Donato, Cristina D’Eredità, Flavia De Strasser, Maria Antonia Fama, Rosa Ferro, Elisabetta Galgani, Elisa Flaminia Inno, Désirée Marianini, Eleonora Marino, Beatrice Miano, Viola Piccininni, Elettra Pizzi, Francesca Zanni.

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