La pandemia ha accentuato la ferita delle disuguaglianze. I più colpiti sono sempre loro, le famiglie disagiate, i giovani e le donne. La proporzione di laureati sotto i 34 anni che non ha un lavoro è in cresciuta, più di uno su tre. A dicembre dei 101 mila lavoratori in meno, 99 mila sono donne. E, secondo i dati Istat il 26,6% dei figli rischia un ‘downgrade‘ rispetto ai genitori, con una situazione molto più grave al Sud.
Tutte punte di iceberg di una realtà che da troppo tempo ci tira giù: povertà educativa profonda, grandi disparità territoriali, scarsa mobilità intergenerazionale tra livelli di istruzione, basso ritorno dell’investimento in istruzione e un tessuto produttivo con una debole domanda di competenze avanzate, che non sono quindi remunerate adeguatamente. È così che il nostro Paese non riesce a stimolare, ritenere, e capitalizzare sui suoi talenti.
In media le competenze in Italia sono sempre state basse da quando esistono dati standardizzati e comparabili tra Paesi. Ma l’ urgenza ha ora due livelli. Offrire al Paese i mezzi necessari per una decisa lotta alla povertà educativa, che è comunque un forte driver di disuguaglianze. Preparare il Paese alle sfide del futuro del lavoro, investendo nella costruzione del capitale umano necessario per le sfide di domani, anche nell’ottica dell’inclusione. Inclusione soprattutto nel perimetro delle competenze emergenti, tutte essenzialmente nei territori STEM (Scienza, tecnologia, Ingegneria, matematica), competenze digitali incluse.
Sono questi i settori in cui il potenziale di empowerement è più forte e le traiettorie di carriera crescite salariali più pronunciate. Qualche esempio sparso. Più della metà delle professioni del 2030, non esistono ancora e richiederanno competenze STEM. In questi settori i tassi occupazionali sono i più alti e la correlazione tra salario orario elevato e livelli avanzati di competenze matematiche è forte e dimostrata. Questo è il momento di spingere con più determinazione il Paese in questa direzione.
Qualcosa di inedito rispetto all’esposizione alla scienza è infatti avvenuto in questi lunghi mesi di emergenza sanitaria. Le competenze scientifiche sono tornate al centro. E hanno fatto la differenza, dopo un lungo periodo di post-verità e irrisione degli esperti. Anche il linguaggio della comunicazione è stato prevalentemente tecnico. E l’intensa esposizione a terminologie statistiche/ scientifiche è diventata familiarità, un po’ per tutti, con concetti quali percentuali, probabilità e crescita esponenziale. Questo risultato non è una cosa da poco. E sarebbe importante, nonché lungimirante, saper capitalizzare su questa nuova contingenza.
Perché in un Paese dove le disuguaglianze aumentano e l’ascensore sociale, per chi viene da famiglie più svantaggiate, è fermo, la sfida delle pari opportunità non può aspettare. E passa anche dalla matematica. Un linguaggio, un modo di pensare, un fattore di stima in sé stessi, e, in un mondo in trasformazione, un «abilitatore di futuro». La possibilità di essere a proprio agio in quegli spazi dove si immagina e si costruisce il domani. Rimanere indietro, vuol dire rimanere fuori. La sfida è comunque ardua.
Diceva Rilke, il futuro è in noi prima ancora che accada. L’ indagine Pisa 2018, pubblicata lo scorso dicembre – che valuta ogni 3 anni e in 79 Paesi, le competenze dei 15enni rispetto alla lettura, la matematica e le scienze – metteva in qualche modo a fuoco il «potenziale di futuro prima ancora che accada» di cui dispongono i ragazzi di quell’età e quindi l’abilità dei Paesi ad assicurare loro le conoscenze e gli strumenti intellettuali necessari ad affrontare la vita che li aspetta da lì a poco.
I risultati in Italia: siamo tra i Paesi in cui, tra il 2015 e il 2018, il rendimento in scienze è diminuito in modo più drastico. E abbiamo uno dei divari di genere più profondi per quanto riguarda le abilità matematiche. I ragazzi italiani ottengono risultati nettamente migliori delle ragazze in matematica. Dopo di noi si piazzano solo il Costa Rica e la Colombia. Le differenze in matematica mettono a fuoco anche altre dimensioni di disuguaglianze. Territoriali – le regioni del Nord hanno ottenuto risultati vicini ai migliori Paesi europei mentre regioni del Sud hanno ottenuti punteggio sotto la media nazionale – e socio-economiche. È impressionante osservare come lo status socio-economico aiuti a prevedere le prestazioni in matematica e scienza in tutti i Paesi partecipanti a PISA. Una sorta di determinismo sociale implacabile.
Quali sfide ci aspettano
L’emergenza sanitaria ha accentuato questa fragilità approfondendo ulteriormente tutte le distanze. Dopo un anno di didattica a distanza sono ancora soprattutto i bambini delle famiglie ad alto disagio sociale a pagarne il prezzo. La metà della progressione attesa sembra essere evaporata, coinvolgendo soprattutto i più piccoli, che hanno potuto beneficiare meno degli altri dell’ insegnamento a distanza o di studio autonomo. Certamente per la mancanza di supporti tecnologici che sono stati indispensabili per garantire la continuazione dell’ apprendimento durante la chiusura fisica delle scuole e che potrebbero continuare ad avere un peso importante nel prossimo anno accademico.
L’ Italia è uno dei Paesi occidentali dove la carenza infrastrutturale è più marcata e quindi dove le disparità potrebbero risultare più profonde. Ma anche perché le competenze medie soprattutto numeriche degli adulti italiani, che sono i genitori che hanno accompagnato i ragazzi durante la chiusura delle scuole, sono tra le più basse tra i Paesi dell’ area OCSE. Le competenze medie numeriche di un laureato italiano tra i 40 e i 60 anni sono paragonabili quelle di chi in Giappone ha terminato la scuola secondaria. E la percentuale di adulti che dichiara di non dover svolgere nessuna attività legata ai numeri (usare una calcolatrice, leggere un grafico, calcolare decimali) è la più alta dei paesi OCSE, dove il non usare i numeri è correlato con il “non saperlo fare”.
In Italia, il valore strategico di queste competenze non è ancora sufficientemente riconosciuto. E ci fa restare indietro. Guardiamo all’estero. Nel 2017, la Francia ha fatto delle competenze in matematica una priorità nazionale. La motivazione: uno scarso rendimento in matematica può portare ad una situazione socialmente ed economicamente difficile che, se non corretta, può pesare fortemente sul futuro sviluppo del Paese. Ma non solo.
La Francia riconosce che l’ esclusione dalla matematica, ha anche un impatto sulla fiducia in se stessi, induce un senso di inadeguatezza che rende i cittadini più inclini a delegare ragionamenti complessi, a preferire le semplificazioni e a diffidare degli esperti. Con l’inclusione nella matematica si costruisce anche una cittadinanza consapevole. La capacità di navigare attrezzati nel rumore di fondo di indistinguibili fatti e percezioni e essere consapevoli nell’ esercizio dei propri diritti. E la democrazia è un equilibrio delicato, oggi oltretutto messo alla prova dalla pandemia. Basti pensare che, secondo un rapporto CENSIS del 2020, il 38,5% degli italiani è pronto a rinunciare ai propri diritti civili per un maggiore benessere economico, introducendo limiti al diritto di sciopero, alla libertà di opinione, di organizzarsi, di iscriversi a sindacati e associazioni.
Scegliamo anche noi la strada intrapresa dalla Francia, puntando sull’insegnamento della matematica con metodi didattici innovativi. I progressi considerevoli realizzati dalle neuroscienze, soprattutto nella comprensione dei meccanismi di apprendimento dei bambini, stanno dando vita ad una nuova disciplina, la “neuro-educazione”. In questa ottica, il ministro dell’educazione nazionale francese Jean-Michel Blanquer ha istituito un consiglio scientifico presieduto da Stanislas Dehaene, sostenitore dell’idea che «una teoria dell’educazione necessita la comprensione della mente che deve essere educata», che sta cambiando profondamente la prospettiva sulla didattica della matematica. Secondo Dehaene, figura prominente nel campo delle scienze cognitive, abbiamo tutti un «senso dei numeri» e la possibilità di raggiungere risultati eccellenti o pessimi dipenderà dall’ amore, o dalla diffidenza, per questa materia indotta prestissimo nei bambini dall’ambiente in cui sono immersi.
I bambini e le bambine che si convincono di “non essere portati” sono espressione di un fallimento pedagogico e di stereotipi familiari e sociali. E questo non possiamo più permettercelo. Se pensano di non essere portati è nostro dovere, come Paese, “portarceli”.
Una più grande inclusione nella matematica equivale a una democrazia più solida, un’economia più forte, meno disuguaglianze, e tante opportunità, reali e più giuste, di prepararsi al futuro prima che accada. Potrebbe essere questa la formula per la ripresa.