Cara Alley,
ti scrivo mentre correggo pile di compiti in classe. Sono un’insegnante di lettere della scuola secondaria di primo grado, i miei studenti frequentano il terzo anno e si preparano al fatidico esame di giugno. Tutti si chiedono come sarà questo esame. In presenza? A distanza? Io li guardo e mi chiedo che cosa porteranno di loro all’esame dopo questo anno passato a fare scuola dietro ad una mascherina.
Mi domando anche come stanno vivendo questa pandemia, glielo chiedo, me lo scrivono su fogli di carta che mi consegnano non prima di essersi disinfettati le mani. Solo quando l’ultimo della fila ha consegnato il suo lavoro posso prendere i fogli ma prima devo disinfettarmi anche io le mani. Sulla cattedra c’è il disinfettante, prima c’erano libri che si potevano leggere nelle ore di buco.
Non è una critica al sistema la mia, tutte queste precauzioni tutelano tutti noi che abbiamo la fortuna di entrare in classe ogni mattina. I miei studenti sanno di essere fortunati, non solo perché possono “fare scuola” ma perché possono incontrare i compagni, alcuni dei quali rappresentano l’amicizia nella sua accezione più profonda. La loro vita al momento è dentro la scuola, scorre lungo i corridoi e passa di voce in voce da un banco all’altro perché la ricreazione si fa seduti, niente passeggiate tra i banchi, niente chiacchiere sulla porta o in corridoio.
Nonostante queste limitazioni, quella a scuola è vita vera, quella vita di cui accusano la mancanza fuori dalle aule. Non c’è la palestra, non c’è la musica, non c’è cinema, non c’è la piazza in cui incontrarsi. “Dopo scuola non c’è niente prof” mi scrivono. Dicono di non stare male ma neanche bene, dicono di stare in sala d’attesa: attesa di un vaccino che arrivi a liberarli dalla colpa di essere loro i postini del Covid. Questo carico di responsabilità è davvero pesante sulle spalle di ragazzi che fino a ieri erano solo figli da proteggere ed ora improvvisamente vestono i panni troppo larghi dei genitori che difendono la salute degli adulti. La morsa del primo lock down si è affievolita ma il senso di responsabilità è rimasto e continua a pesare su di loro.
Quando gli studenti si ammalano di Covid (“Prof io non ci avevo mai pensato veramente che potevo morire”) la scuola va a casa loro, la famosa DAD, la didattica a distanza. Dalla cucina o dalla camera ascoltano le lezioni, intervengono, prendono appunti, ma poi suona la campanella della ricreazione e allora non si alzano dalla scrivania ma chiedono di tenere lo schermo del pc della classe verso i compagni perché così si possono salutare e gli sembra di essere un po’ a scuola anche loro.
Per il resto la mascherina è diventata parte del loro volto, qualcuno teme già il momento in cui dovrà toglierla, mi dicono “mi sentirò nuda prof”, altri “sarò un’altra persona quando me la sfilerò via per sempre”, tutti però scrivono “torneremo a respirare”. I banchi infatti si riavvicineranno, in palestra si tornerà a esultare scambiandosi il cinque e i nastri adesivi che impediscono di avvicinarsi troppo alla cattedra scompariranno. La scuola è prossemica per sua natura, la scuola passa anche attraverso un abbraccio o una carezza.
Nel frattempo continuiamo a fare la migliore delle scuole possibili in tempo di pandemia e, dopo aver redarguito i nostri alunni per un uso eccessivo della tecnologia, ci affidiamo proprio a lei per assegnare compiti di realtà in cui gli studenti realizzano video, progettano blog e podcast, in cui canalizzano tutta la loro creatività. Perché se c’è un insegnamento che la scuola può dare in questo momento ai ragazzi è che, nonostante le difficoltà, è importante continuare il viaggio, trovare nuove strade da percorrere è la vera sfida.
Cara Alley, dopo questo momento di pausa, riprendo a correggere i miei compiti, perché anche in tempo di pandemia le pagelle devono essere consegnate.
Oriana Fiumicino