Il coraggio e la forza. Per fermarsi e dire basta. Ma anche per ricominciare. E cercare la verità. C’è un filo rosso che lega e cuce storie diverse ma affini. Storie di donne, figlie e mamme che hanno combattuto la violenza, talvolta pagando in prima persona. Donne che non si arrendono e grazie alla loro forza vanno avanti. Donne che Adriana Pannitteri, giornalista del Tg1, racconta nel suo libro intitolato “La forza delle donne” (Giulio Perrone editore), “liberamente ispirato alla tragedia che ha visto l’assassinio di Giordana Di Stefano”, accoltellata nel 2015 a soli vent’anni dal suo ex compagno e padre di sua figlia a Nicolosi, nel catanese.
È Maria Grazia, giovane adolescente siciliana che sogna di fare la giornalista o la scrittrice, a cucire le storie e le esistenze. Quella di Giulietta, la giovane che sogna di fare la ballerina ma che viene brutalmente uccisa. E soprattutto quella della signora Veronica, la madre di Giulietta. Una donna che non si arrende. Vuole giustizia per la figlia, e desidera anche che non ci siano più episodi simili in futuro. Lei combatte e dalla sua forza e tenacia rimane affascinata anche Maria Grazia.
E poi l’adolescenza di Maria Grazia, il cuore che batte per il compagno di scuola, la famiglia e quella complicità che la lega ai cugini. Ma anche Federica, l’amica d’infanzia. Con gli occhi, le aspirazioni e i sogni di un’adolescente si ripropone un problema sempre attuale. La violenza sulle donne. Quella perpetrata da chi quelle donne dovrebbe difenderle e proteggerle, sostenerle e supportarle.
“Maria Grazia rappresenta un’adolescente che vuole guardare il mondo e che non rinuncia a interrogarsi – chiarisce l’autrice -. È un personaggio di fantasia che racchiude però molto di me adolescente. Volevo fare la giornalista e scrivere e in Maria Grazia ho potuto riversare molte mie aspirazioni. Una sorta di specchio attraverso il quale leggere la realtà. Certo, la violenza e in particolare la violenza sulle donne è una tematica che deve essere affrontata e in questi anni ho potuto constatare, incontrando molti giovani nelle scuole, che non sono apatici o indifferenti rispetto a questi problemi. Confrontarmi come adolescente, credo, mi ha permesso di avvicinarmi di più a loro”.
Nella narrazione, tra cronaca e romanzo, c’è un messaggio anche alle ragazze e alle donne. “Sì, mi rivolgo a ragazzi e ragazze ma avverto la necessità di sottolineare che molte ragazze devono rafforzare l’autostima e la consapevolezza delle proprie capacità – dice ancora Adriana Pannitteri – . Non si può pensare di amare una persona e restare prigionieri. Nel libro la vittima, ovvero Giulietta, ha vissuto una situazione di questo tipo e troppo tardi è riuscita a ribellarsi. C’è una certa fragilità dei rapporti umani e delle relazioni che spinge troppe ragazze a sentirsi amate solo se si risponde a determinati canoni. Mi riferisco anche a canoni di bellezza e a stereotipi di cui ancora non siamo riusciti a liberarci”.
Il romanzo assesta un colpo al luogo comune che con l’attribuzione di responsabilità alla donna vorrebbe comunque giustificare la violenza. “Purtroppo sono incappata, con il mio lavoro di giornalista, in vicende nelle quale le stesse donne adulte giustificano la violenza del partner e continuano a vivere in uno stato di vera e propria soggezione psicologica – conclude -. C’è una sorta di timore ad affermare la propria identità e a stare in un rapporto in modo paritario. Questo non accade solo per mancanza di indipendenza economica o per proteggere i figli. Credo sia soprattutto colpa di un retaggio culturale resistente e che talvolta, mi spiace dirlo, viene subito dalle stesse donne. Dobbiamo ancora fare uno sforzo per modificare la mentalità perché alcuni meccanismi sono duri a morire”.