Le vite dei bambini: a volte favole, altre volte favolacce

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Photo by Kristopher Roller on Unsplash

Le vite dei bambini e degli adolescenti non sempre sono favole. A volte sono vere e proprie favolacce, per citare il titolo di un recente film intenso, coraggioso e crudele dei fratelli D’Innocenzo. Capita infatti, anche in società che si vantano di tutelare i diritti dei bambini e degli adolescenti, che un cattivo maestro sia sufficiente ad instillare un seme che esplode in una tragedia.

E’ a suo modo una favolaccia la storia di Gianluca e Flavio, i due ragazzini di Terni di 15 e 16 anni, trovati senza vita nel loro letto dalle rispettive famiglie. Pensando fosse codeina, hanno assunto una dose letale di metadone diluito, acquistato con l’obiettivo di rilassarsi.

In relazione al loro caso, il procuratore della Repubblica di Terni ha parlato di responsabilità collettiva. Ma uscendo dalla facile retorica che si lega a questa espressione, di cosa siamo responsabili? “In ogni uomo vi è qualcosa di sacro” – scrive Simone Weil – “Ciò che per me è sacro non è né la sua persona né la persona umana che è in lui. È lui. Lui nella sua interezza. Braccia, occhi, pensieri, tutto. Non arrecherei offesa a niente di tutto questo senza infiniti scrupoli”. Ma certi adulti ignorano ciò che è sacro nell’essere umano. Ignorano che, come scrive ancora la Weil, “dalla prima infanzia sino alla tomba qualcosa in fondo al cuore di ogni essere umano (…) si aspetta invincibilmente che gli venga fatto del bene e non del male”.

Siamo responsabili, allora, come società, quando lasciamo che tra quel cattivo maestro e quel bambino non vi siano barriere, né ostacoli, né scudi, né filtri di protezione. Quando acconsentiamo a decisioni politiche che relegano i problemi, anche quelli più complessi, ad una gestione emergenziale, rinunciando ad investire nella prevenzione, che necessita di tempi più lunghi ed è assai poco remunerativa in termini di propaganda. Quando non forniamo ai bambini e alle famiglie informazioni utili e indispensabili per comprendere meglio i fenomeni (in questo caso droghe, farmaci e i loro effetti sul corpo), affinando e potenziando il loro senso critico.

Crescere significa anche imparare a difendersi dai pericoli e per poterlo fare gli adolescenti hanno bisogno di adulti che non spengano la voglia di cambiamento, il coraggio di rischiare e quell’idea di mondo come bacino di strade inesplorate, né che si sostituiscano o si illudano di poter essere sempre presenti, ma che si occupino di accompagnare il desiderio di esplorazione ad un’adeguata consapevolezza

Photo by Christopher Campbell on Unsplash

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Siamo responsabili anche quando non diamo ai più giovani le parole per esprimere  il disagio e le inquietudini che vivono, più o meno grandi, aiutandoli a comprenderne il senso e la direzione. Le emozioni di cui non si parla diventano qualcosa di pericoloso, da mettere fuori gioco e l’abuso di sostanze trova un terreno fertile nel desiderio di soffocare e di spegnere rapidamente ogni difficoltà emotiva, sia essa inscrivibile nel capitolo dell’ansia, della tristezza, della rabbia o della noia.

E’ responsabile dunque una società che non fornisce i mezzi espressivi, anche attraverso la cultura e l’istruzione, e che non dà spazio all’ascolto, creando occasioni di silenzio e di attenzione dove la voce spesso fievole e maldestra dei bambini e degli adolescenti possa farsi udire. Gli adulti parlano ancora troppo di sé stessi e delle proprie difficoltà esistenziali, oppure parlano “sopra” e “al posto di” bambini e adolescenti.

L’altra foto, invece, è di un mio disegno. L’ho fatto a scuola durante una lezione particolarmente noiosa. È il volto di una ragazza in primo piano. Negli occhi, al posto delle pupille, ha una gabbia in cui si scorgono delle mani che afferrano le sbarre. La bocca della ragazza è tappata da una grande mano. (…) È fin troppo chiaro cosa significa, no? Una ragazza che ha le sbarre negli occhi, che non può parlare. Forse è un po’ esagerato, ma a volte mi sento proprio così, come se qualcuno mi tappasse la bocca, ma dall’interno”. È Alice a parlare, diciassette anni e una storia di tossicodipendenza, protagonista del libro pieno di verità e di speranza di Simone Feder “Alice e le regole del bosco”. Altra storia che nasce come favolaccia, un grido silenzioso, anch’esso fievole e maldestro, che però trova sul proprio cammino un incontro salvifico.

Le favolacce non hanno mai una sequenzialità lineare, sono troppi i fattori coinvolti e innumerevoli le letture che si offrono ad uno sguardo retrospettivo. Il seme produce una deflagrazione, a volte per caso, altre per necessità, e chi si ritrova ad assistere si sente con uno squarcio nel petto, come in un’opera di Fontana. Guardando al futuro, l’auspicio è che, in un momento storico in cui si parla tanto di ripensamenti, storie singole che diventano grido corale possano davvero richiamare un senso di responsabilità collettiva. Questo riguarda ciascuno di noi e inizia con il prestare attenzione a momenti e scelte che appaiono di trascurabile importanza, di cui spesso neppure ci accorgiamo, ma che pesano sul futuro dei bambini.