Una ragazza è seduta su un divano. Tiene in mano dei fogli e un evidenziatore. Si sta preparando a un momento decisivo della sua vita.
«Devo occupare spazio. Stasera ci proverò. Ce la posso fare. Ho abbastanza esperienza per poterlo fare. Sono abbastanza informata per farlo. Abbastanza preparata per farlo. Abbastanza matura, abbastanza coraggiosa per farcela. Mentre lui per tutto il tempo mi dirà che non posso farcela. Che sono piccola, insignificante, giovane e inesperta» è il discorso motivazionale che pronuncia Alexandria Ocasio-Cortez prima dello scontro tv con Joe Crowley, il candidato contro cui correva per le primarie del partito democratico.
È uno degli istanti topici del docufilm “Knock Down the House” (Alla conquista del Congresso è il titolo italiano) della regista Rachel Lears. Un documentario da record. Girato dalla cineasta e produttrice senza grandi fondi, proprio quando aveva appena avuto un bambino, ha affrontato un percorso accidentato, ma alla fine è arrivato il successo. Netflix per poterlo trasmettere ha speso 10 milioni di dollari.
Le parole della più giovane donna a essere mai stata eletta al Congresso degli Stati Uniti sono quelle che tutte le donne dovrebbero ripetersi prima di un colloquio di lavoro o di una sfida o un istante importante, ogni volta che decidono di mettersi in gioco. “Sono forte e ho tutto quello che serve. Ce la posso fare”.
“Knock Down House” non è infatti un semplice documentario. È la storia di come la riottosa combattente del Bronx, così viene definita Alexandria Ocasio-Cortez proprio nel docufilm, a neanche trent’anni è riuscita ad essere eletta al Congresso. Una storia che si intreccia con le vite di altre tre donne altrettanto combattive che decidono di impegnarsi attivamente in politica. Paula Jean Swearengin del West Virginia, Cori Bush del Missouri e Amy Vilela del Nevada. Tutte si sono candidate contro quelli che sono chiamati i “boss” del loro partito, uomini potentissimi che hanno le campagne elettorali finanziate dalle lobby o da influenti corporations. Tutte sono delle outsider, ognuna di loro ha fatto un passo avanti, ha alzato la mano, non si è tirata indietro.
«Mi è sembrata una scelta naturale concentrarmi su queste candidate perché c’è stata la storica ondata di donne che correvano nelle elezioni di metà mandato – ha detto la regista in un’intervista a Vanity Fair – Queste quattro donne si sono davvero distinte per le loro forti storie personali. Con coraggio hanno trasformato le difficoltà e i lutti che hanno affrontato in qualcosa che ha permesso loro di passare all’azione. Le connessioni tra esperienza personale e politica sono diventate la pietra angolare delle loro campagne».
Paula Jean Swearengin, candidata al senato per il West Virginia, figlia di un minatore, ha vissuto gli effetti devastanti dell’industria estrattiva del carbone sull’ambiente e sulla salute della gente. Non vincerà la corsa, ma tre democratici su 10 voteranno per lei.
Cori Bush, infermiera e pastora, si è candidata per fare qualcosa contro razzismo e criminalità, ha sfidato William Lacy Clay, politico che occupa il seggio da quasi due decenni. Amy Vilela ha corso nelle primarie democratiche del 4° distretto congressuale del Nevada contro Steven Horsford. È entrata in politica dopo la morte della figlia ventenne Shalynne, che è stata ricoverata in ospedale con i sintomi di un coagulo di sangue, ma non è riuscita a provare di avere un’assicurazione sanitaria. Non è stata curata. È morta per un’embolia polmonare. Vilela si batte perché che quello che è capitato alla figlia non succeda più.
«Credo che ci sia bisogno di considerare che cosa fa ora il potere. Quando serve non lotta per noi, non sostiene i nostri interessi» dice con forza Alexandria Ocasio-Cortez. È lei la protagonista indiscussa. Ha centrato la vittoria alle primarie, ha corso per il 14° distretto di New York contro Joseph Crowley, presidente del comitato democratico della contea e del gruppo parlamentare alla camera, il quarto democratico più potente del Congresso. Crowley non ha avuto avversari alle primarie per 14 anni fino a quando non si è candidata Alexandria.
Lei ora è una delle stelle del partito democratico, ma ha iniziato dalla base come attivista. Il docufilm la immortala anche mentre prepara il ghiaccio per i cocktail al bar dove lavorava: «La gente non vede quello della cameriera come “un lavoro”. È invece la mia esperienza in questo campo che mi ha preparato davvero a questa impresa. Sono abituata a stare in piedi 18 ore al giorno e ricevere molte richieste, sono abituata alla gente che mi tratta male» afferma Ocasio che ha sfidato l’establishment arroccato ai piani alti, quello che non si presenta ai forum, agli incontri con la gente. Lei invece ha girato i quartieri a piedi, ha consumato le suole delle scarpe, ha stretto mani, scambiato sguardi. Ed è lei nel documentario a raccontarci la sua storia: «Mi candido a rappresentare il Bronx, appartengo a questo quartiere da tre generazioni, sono latina, portoricana, discendente degli indiani e degli schiavi neri, orgogliosa di essere americana».
È il rapporto con il padre scomparso quando lei era al college ad averla segnata:
«È lui che mi ha convinta definitivamente che avevo un vero potenziale». Alexandria Ocasio Cortez non si è persa d’animo. Dopo la morte del padre la sua famiglia si è trovata in difficoltà economiche. Alexandria ha cercato di lavorare il più possibile per evitare il pignoramento della sua casa. È una donna che ha vissuto sulla propria pelle cosa significa essere parte della working class, la classe lavoratrice.
È partita in questa elezione come sfavorita, ha lottato con tutta la forza che aveva in corpo. Ha rifiutato i soldi di società e persone influenti, ha puntato invece sui social. Ha parlato al cuore della gente. Lei e tutte le altre hanno provato a ridefinire il panorama politico, hanno sfidato il potere tradizionale per riscriverlo. «Qualcuno di noi dovrà farcela. Perché una di noi ce la possa fare, devono provarci in cento» è uno dei messaggi del film. Coraggio, determinazione, voglia di non arrendersi.
Lacrime, entusiasmo, rabbia, stupore. Il film corre sul filo delle emozioni. Una delle sfide in politica per le donne, lo fa emergere chiaramente il documentario, è quella di sfatare i pregiudizi che riguardano gli stati d’animo. Appartengono a tutti i generi, ma la visione patriarcale tradizionale porta ad attribuirli alle donne che poi per questo vengono discriminate. «Mi hanno detto di non mostrare le emozioni perché le donne sono considerate fragili se lo fanno» viene detto da una delle candidate. «Per una donna – afferma Alexandria – prepararsi a un momento importante comporta tante decisioni su come ti presenterai al mondo. Come ti prepari per qualcosa che non sai se accadrà?» si domanda.
Tante donne americane nelle elezioni di metà mandato hanno accettato la sfida. Hanno creduto nella loro forza, hanno scommesso su loro stesse. Hanno portato avanti istanze intersezionali legate alla loro storie e alle loro comunità. Nella scena finale che chiude il film Ocasio-Cortez parla di come gli insegnamenti del padre l’abbiano resa una donna libera, pronta a mettersi a disposizione per il suo Paese. Dare l’esempio, essere di ispirazione con consapevolezza, carisma e audacia, perché, la sua storia non sia un caso isolato. Dagli Stati Uniti all’Europa, magari anche in Italia.