Il fronte delle battaglie delle donne sembra essere, sempre, un fronte aperto.
A destare preoccupazioni e a sollevare polemiche è al momento l’iniziativa legislativa a firma del senatore leghista Pillon, il cui disegno di legge propone il tentativo di una riforma del diritto di famiglia definito non accettabile da eminenti giuristi. La declinazione di una bigenitorialità “perfetta” che imporrebbe ad esempio al minore il doppio domicilio (uno presso ciascun genitore), lo spettro della alienazione parentale, la mediazione obbligatoria in palese violazione delle prescrizioni rese dalla Convenzione di Istanbul in tema di violenza domestica, sono alcuni tra gli aspetti più criticati. E i toni a un certo punto sono diventati altissimi. Nella sala del consiglio al I municipio di Roma, lo scontro si è fatto fisico. C’è una parte del Paese che si mobilita per dire che no. Luisa Betti Dakli, per esempio, che fa informazione su questi temi da sempre.
E poi c’è Francesca Brezzi, docente di filosofia morale, che solo qualche tempo fa lanciava, con una lettera a La Stampa relativa alle esigenze di tutela delle donne lavoratrici e non, più che un sassolino; uno di quelli che anche nello stagno più immobile increspano la superficie. Al centro del suo contributo c’è la cosiddetta Clause de l’Européenne la plus favorisée.
Brezzi è docente di filosofia morale e già delegata del Rettore alle Pari Opportunità e Studi di Genere all’Università Roma Tre, il suo nome ritorna spesso nelle ricerche quando si prova ad approfondire quel tema che viene da lontano e che, certo, incuriosisce. Le sue riflessioni confermano già quello che era facile immaginare: a prendere forma è la storia del femminismo, in risvolti appunto recentissimi. È lei che in Italia, insieme ad altre donne del gruppo romano, ha lavorato alla diffusione de La Clause.
Ma di cosa si tratta, di preciso?
Per dirla brevemente, è un progetto che tende all’armonizzazione verso l’alto delle leggi scritte e pensate per le cittadine europee. Sappiamo che servono delle norme a tutela dei nostri diritti violati – oggi più che mai – e quel progetto ci dice che in parte ci sono già. E ci spiega persino dove cercarle. Perché si sia arenato e come tirarlo fuori dal limbo è questione che forse va raccontata.
Anche da presidente del Gender Interuniversity Observatory, Francesca Brezzi, ha tentato per via accademica un’opera di divulgazione. Ha organizzato convegni, approfondito e dibattuto La Clause in ateneo e riempito pubblicazioni scientifiche con quei contenuti.
Quel progetto, nasce da una premessa che ha radici nobili. «Perché il diritto innanzitutto? Perché credo, con R. P. Lacordaire, che “tra il forte e il debole, la libertà opprime e la legge libera”. E che l’Europa di domani non possa essere quella della libera concorrenza (legge che opprime) a scapito della legge che protegge e conferisce diritti alle donne e alle persone deboli di ogni sistema (legge che libera). Contro la legge della giungla, quella dell’uguaglianza e del rispetto di tutti». Con queste parole Gisèle Halimi, presidente di Choisir la cause des femmes (associazione costituita nel giugno del 1971 da personalità tutte di primo piano del femminismo francese tra le quali proprio Simone de Beauvoir), definisce l’importanza della scelta di creare una legislazione a misura di donna. Tutto questo è La Clause de l’Européenne la plus favorisée.
È attraverso Choisir che l’avvocata Gisèle Halimi insieme al premio Nobel Jacques Monod, propone l’idea al suo Paese nei primi anni 2000. La Clausola più favorevole, così tradotta per comodità in casa nostra, confluisce in un primissimo testo, pubblicato nel maggio del 2008 per le “Editions des femmes”.
Cos’era e cosa può ancora essere, è per l’appunto tema che probabilmente merita il racconto. Quella voluta da Madame Halimi appare da subito come un’operazione senza precedenti: si pretende che ogni Stato Membro dell’UE giunga ad applicare alle sue cittadine una rosa di leggi composta da quelle più avanzate, vigenti nell’uno o nell’altro dei ventisette Paesi dell’Unione.
La caratteristica del progetto è che in ballo ci sono le norme che disciplinano i diritti delle donne in tutti i settori di maggiore impatto. Si definiscono dunque delle macroaree. Nel merito, i temi trattati non possono che essere quelli essenziali, argomenti che costituiscono una piattaforma talmente larga da includere la scelta della maternità, la vita professionale e l’occupazione, i rapporti familiari, la lotta contro la violenza e poi la parità, declinata in ogni ambito, non ultimo quello della politica. Ma torniamo alle leggi. L’obiettivo altissimo del progetto è di mutuare da un panorama composito le disposizioni migliori. Si vuole creare per questa via una disciplina organica a tutela delle donne. Le giuriste direbbero che l’obiettivo è imporre cioè, usando la tecnica dell’inserimento di una clausola nei Trattati, l’allineamento delle legislazioni degli Stati sull’asse delle normative più avanzate.
E ciò per dare concretezza alle dichiarazioni di principio e all’articolo 23 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea che è dedicato alla parità e che si esprime nei termini che seguono:
«La parità tra donne e uomini deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione. Il principio della parità non osta al mantenimento o all’adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato».
Si definiscono tre fasi, di cui la primissima strettamente tecnica è attività di comparazione del diritto, fatta perlopiù di ricerca documentale. Dalle riflessioni incrociate, fino alla selezione del materiale e alla creazione finale di quello che nelle stesse parole delle fautrici è un bouquet legislativo. Riuniti in un testo unico, del tutto innovativo, i provvedimenti che hanno la caratteristica di prevedere il miglior trattamento per le donne vengono sottoposti al vaglio del confronto. Da lì, in una vera e propria rete, i dibattiti con l’associazionismo e con le accademie, gli incontri politici. L’esito dei lavori è sorprendente per sintesi, tanto quanto per modernità e lucidità lo è l’idea di partenza. Viene fuori un quadro normativo che attinge a quattordici Stati.
L’Italia nella rosa dei migliori non compare. Che non fosse un Paese per donne, il nostro, è sempre stato chiaro. Il programma di Choisir coi suoi tanti tasselli finisce per disegnare un puzzle che aspira a diventare realtà vigente, diritto positivo.
A partire dalla legislazione danese in tema di educazione alla sessualità, resa già nella scuola dei più piccoli e ai centri di pianificazione familiare; alla normativa stilata dai Paesi Bassi, in tema di contraccezione, con un sistema accessibile in maniera diretta, libera e gratuita sia ai minori che alle donne adulte.
Sull’aborto, guardando invece alla Svezia, pioniera nella autodeterminazione e nel rispetto della libertà delle donne di decidere del proprio corpo, con la previsione di un termine legale per l’ivg compreso in una forbice che vada da un minimo di 12 e un massimo di 18 settimane e con l’inserimento nel sistema sanitario della pillola abortiva.
Altrettanto per l’istituto del congedo parentale, altamente remunerato e incluso in uno schema che si fonda sull’alternanza. In materia di diritto di famiglia, Choisir sceglie la normativa dell’Austria, a motivo del primato concesso al matrimonio civile. Ma il progetto fa di più e integra quelle buone leggi con l’inserimento nel sistema di un reticolo di sanzioni e con un’inedita apertura al matrimonio tra omosessuali. E ciò come nella legge spagnola, individuata invece dal progetto voluto dall’avvocata Halimi in tema di divorzio. In quell’ordinamento la cessazione degli effetti del matrimonio non soggiace alla necessità che vi sia una causa, né tanto meno a un periodo di riflessione pur mantenendo, la normativa, la sussistenza dell’obbligo di aiuto con alimenti.
Si guarda al Belgio, invece, per il suo contratto d’unione civile che garantisce, come il matrimonio, diritti di alto livello, aperti a prescindere dall’orientamento sessuale della coppia. Quanto alla disciplina delicatissima della autorità parentale la scelta cade, invece, sull’Estonia, sin dal legame di filiazione. Lo schema si caratterizza per il mantenimento, anche in caso di separazione, dell’esercizio congiunto dell’autorità parentale con la sola eccezione di constatata contrarietà all’interesse del bambino e con la facoltà di rimettersi ad un giudice in caso di controversie (facoltà mutuata dalla legge francese). Il passo avanti è una miglioria. E si deve al diritto dei Paesi Bassi: si prevede l’attribuzione giudiziale dell’autorità parentale ad uno dei genitori ed al suo coniuge o convivente, indipendentemente dal loro orientamento sessuale.
Sul tema attualissimo della violenza sulle donne e dunque dei maltrattamenti e degli abusi in famiglia si guarda al modello spagnolo. Quello riserva un’attenzione particolare alla sensibilizzazione nelle scuole e alla formazione di interlocutori preparati nei servizi pubblici, senza tralasciare le misure di protezione d’emergenza della vittima. Questa scelta implica la previsione dell’apertura di centri di accoglienza, la determinazione di forti sanzioni contro il maltrattante abbinate tuttavia a programmi di aiuto specifici. Di portata innovativa poi la creazione di giurisdizioni specializzate in grado di includere, in ogni sede di tribunale, un giudice con una formazione specifica, competenze che devono poi essere condivise da tutti gli operatori del diritto coinvolti.
La Francia è la scelta principe in tema di stupro, per il riconoscimento giuridico della condotta come reato in una accezione tanto ampia, da includere le aggressioni sessuali. Altresì il campo d’applicazione fa la differenza, perché è esteso, dalla legge del 4 aprile 2006 e in maniera in certa parte inedita, allo stupro coniugale. Come nel processo francese, Choisir predilige la disciplina dell’udienza a porte chiuse a tutela della privacy della vittima, modalità concessa su sua semplice richiesta, nonché la legittimazione a depositare costituzione di parte civile estesa alle associazioni a difesa delle donne.
Sulla prostituzione la norma che prevale è quella svedese che è per la penalizzazione del cliente, per la creazione di centri d’accoglienza, volti a favorire l’inserimento sociale delle donne, con uno sguardo più attento alle vittime di tratta e alle straniere in situazioni di irregolarità. La Svezia – intestataria in Europa del “modello nordico” – mira ad abolire il fenomeno attraverso campagne d’informazione che coinvolgano le istituzioni e i mass media.
Sulle molestie si guarda poi alla Lituania che vanta in materia un pacchetto di norme articolato e completo. Il Codice del Lavoro che meglio rappresenta la teorizzazione giuridica delle nozioni che provengono dal dialogo tra le parti sociali è invece per Choisir quello francese, forte peraltro di un regime pensionistico basato sulla logica della solidarietà. Sulla democrazia invece la scelta guarda al Belgio che da tempo ha inserito la parità nella Costituzione, in maniera determinante e determinata, tale da garantirla in termini assoluti, con quote in tutte le elezioni, politiche ed amministrative. Ciò che viene fuori è davvero un corpo di leggi monumentale.
Ma qual è il percorso che in questi anni ha compiuto il progetto? L’interrogativo ne implica un altro, per capire quale sia lo stato dell’arte. «Sebbene il nostro libro sia il risultato di due anni di lavoro, non rappresenta altro che il punto di partenza per la realizzazione effettiva della Clausola migliore per le donne europee. Le cittadine e le istituzioni europee, i parlamenti nazionali degli Stati Membri nonché i relativi partiti politici possono far sì che si evolva, se sono intenzionati come noi a proporre alle donne il meglio dell’Europa – lo scriveva Gisèle Halimi, nel libro di Choisir, dato alle stampe già un decennio fa – Ognuno dovrà prendersi cura di tradurre e diffondere nel proprio paese la nostra proposta. Dobbiamo cercare insieme, e quindi trovare, il processo giuridico che consentirà di integrare la Clausola nel diritto comunitario».
A quel primo testo deve riconoscersi un respiro e un’apertura che è invito non ancora raccolto. E sa di occasione perduta, mai come in questo momento. In questi anni a farsi registrare è intanto il Convegno internazionale di Parigi del novembre 2008. I lavori si chiudevano con l’istituzione del Segretariato permanente della Clausola, struttura di base a Bruxelles, destinata a far vivere il progetto. Nel 2010, pur nella Francia di Sarkozy, l’Assemblea Nazionale adottava all’unanimità la proposizione di risoluzione europea presentata dal gruppo SRC e ispirata alla Clause.
Nel nostro Paese, ad illustrare l’idea al Senato della Repubblica è stata la ex parlamentare dell’Italia dei Valori, senatrice Giuliana Carlino che definiva con fermezza La Clause «per certi versi rivoluzionaria, perché corrisponde a un comune sentire e ad una comune sensibilità europea».
Nel 2012 Hollande scriveva a Choisir da candidato alla presidenza, ribadendo l’urgenza di un intervento in favore della parità e ne faceva una questione di programma. Che la Clausola, quindi, sia diventata da subito progetto politico, è indubitabile. Poi per anni, però, non c’è stato quasi più niente.
Al principio del 2017 era sembrato ci fosse una timida inversione di rotta, come un sussulto. È del 6 febbraio, infatti, l’approvazione di una Proposta di Risoluzione del Parlamento Europeo sulla parità tra donne e uomini nell’Unione europea nel 2014-2015 la cui Relazione introduttiva ci dice molto. Da quel documento ci arrivavano informazioni importanti: si riconosceva intanto, a livello istituzionale, come si continuasse a perseguire una politica fatta in maniera disarticolata, quasi spezzettata. Il Parlamento, muovendo dalle enumerazione dei molti ostacoli a una compiuta parità, sottoponeva la questione al Consiglio e alla Commissione, nonché ai governi degli Stati membri. Gli obiettivi erano e sono condivisi, ma le soluzioni prospettate assolutamente differenti.
Si continuava a ignorare la possibilità di adottare quel bouquet delle migliori leggi in favore delle donne che coagula possibilità e opportunità. E anche quando nel report venivano espresse felicitazioni per quei Paesi dell’Unione che nel tempo avessero raggiunto obiettivi di equità in singoli contesti, l’affermazione lasciava il tempo che trovava. Era ed è oltremodo deprimente vedere, anzi, come venissero lodati proprio quegli Stati che rientravano nella rosa dei quattordici. Il dato fornisce proprio il senso dello spreco di un lavoro prezioso. E, così, si può ragionevolmente credere che per esempio serva davvero a poco limitarsi a “incoraggiare” ad agire diversamente ora l’Ungheria, la Slovacchia o la Grecia che hanno costituito negli ultimi anni governi privi di donne!
Questo accade nella redazione del testo appena visto, come in quella di tutti i successivi documenti – non ultima la Relazione della Commissione al Parlamento europeo del 09 luglio 2018 sullo sviluppo dei servizi volti a incrementare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Operazioni monche che sebbene provino a mettere a raffronto le diverse realtà degli Stati membri, non riescono tuttavia ad andare oltre. Lo stesso genere di considerazioni suggerisce la recentissima Risoluzione del Parlamento europeo del 15 gennaio 2019 sulla parità di genere e le politiche fiscali nell’Unione europea (2018/2095(INI).
Quelle che sembra in conclusione inevitabile è constatare come la modernità della Clause stia in un’esigenza di parità che rimane ancora oggi fortissima, non solo nelle femministe.
Nella stessa maniera non è trascurabile che la sua validità coincida invece con una connotazione che è quella di progetto libero e svincolato da confini, tanto geografici quanto di partito.
Sintetizzare e sublimare le differenze, nella comune missione di migliorare la condizione delle donne, quello è o dovrebbe essere il solo punto di arrivo.
E basterebbe guardare a quale sia oggi questa condizione in Italia, come in Europa o nel mondo, per decidere di riprendere in mano la Clause e riassumersi l’onere e l’onore di una simile battaglia di civiltà.