In famiglia uomini nuovi per le nuove donne

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Sono mamma di due figli maschi di 12 e 4 anni, e credo la vita mi abbia dato un’occasione preziosa per poter riflettere sul rapporto possibile tra i generi, attraverso loro.

Ho iniziato a interessarmi a questo tema a 17 anni: mi imbattei, quasi casualmente, nell’immagine di Giuditta I (1901) di Gustav Klimt. Oltre all’icasticità dell’immagine, venni colpita dal fatto che quella donna fosse definita femme fatale. Per anni, da quel giorno, la curiosità mi spinse a voler comprendere ciò che significasse quell’epiteto: quello fu il tentativo, da parte di artisti e letterati, di esorcizzare la paura di fronte a quella che sarebbe divenuta la “donna nuova”. Tra il XIX ed il XX secolo, per ragioni sociali ed economiche legate alle nuove scoperte scientifiche, le donne iniziarono a rifiutare il loro ruolo di angeli del focolare e a reclamare l’indipendenza sociale, economica e giuridica dall’uomo. Fu il momento iniziale di un processo di emancipazione femminile che avrebbe portato a tante battaglie, anche molto crude, e a molte vittorie.

Il mio scopo non è quello di fare una disamina della storia del femminismo: mi trovo però spesso, da donna, madre e professionista del XXI secolo, a riflettere su come il percorso iniziato più di un secolo fa abbia oggi delle ricadute evidenti sulle nostre vite. Pur non avendo vissuto in prima persona gli scontri legati al movimento femminista, sono conscia del prezioso bagaglio di conquiste che ho ricevuto in eredità e che mi hanno permesso di diventare la persona che ho scelto di essere. Incuriosita della prospettiva dei miei due figli maschi sul mondo, mi sono ritrovata recentemente a riflettere su questi temi cercando di spostare il punto di vista.

L’urgenza di lottare per acquisire diritti paritetici all’uomo portò forzatamente le donne, soprattutto negli anni Settanta, a mutuare comportamenti maschili nelle loro azioni. Fu una reazione naturale, un male necessario, quello di dover combattere su un livello più “muscolare”, di dover assumere atteggiamenti da virago. Andavano scardinati secoli di totale mancanza di identità sociale e indipendenza di genere. Ciò però ancora oggi diventa motivo di incomprensione e frizioni con l’altro sesso. Riscontro tuttora molta diffidenza e, concedetemi, anche del timore, da parte dell’uomo: si sente minacciato, in ambito lavorativo e sociale, da donne che si comportano in modo “maschile”. Il rischio è quello di un allontanamento reciproco tra i due generi e anche, in alcuni casi, di una esasperante oggettualizzazione del corpo muliebre, deriva nostalgicamente maschilista.

Da parte dell’uomo, altresì, alcuni mutamenti legati a cause economiche e sociali degli ultimi trent’anni stanno portando all’urgenza di parlare di una questione maschile: mi riferisco al nuovo ménage familiare in cui i padri hanno assunto ruoli, compiti e, talvolta, anche atteggiamenti femminili, materni. Pur essendo nel nostro Paese ben lontani dal congedo parentale di segno scandinavo, noto sempre più spesso questa condivisione nella gestione dell’educazione e crescita dei figli e delle mansioni domestiche. Saluto questo cambiamento epocale (mio padre non mi avrebbe mai cambiato un pannolino!) con entusiasmo e soddisfazione perché credo fortemente nel diritto alla parità di genere. Un’osservazione però mi pare opportuna: l’esigenza di dover lavorare entrambi, porta inevitabilmente a doversi dividere i compiti. Ciò ha indiscutibilmente contribuito a modificare il rapporto padri-figli: l’uomo mutua sempre più spesso comportamenti materni nei loro confronti. Ha un atteggiamento più affettuoso, fisico, comprensivo, ludico e ciò rappresenta, a mio parere, una conquista e un arricchimento importante per il rapporto genitoriale paterno.

Di conseguenza, altresì, la figura materna si sta sempre più snaturando delle sue caratteristiche interiori e sempre più spesso noi mamme dobbiamo essere “il poliziotto cattivo”: la severità, l’autorità è sempre più delegata a noi, mentre i padri tendono sempre più ad essere il compagno di giochi. Capita in queste confuse situazioni che possano affiorare delle frustrazioni dovute al riconoscimento della perdita di alcune caratteristiche di ruolo: le madri vorrebbero essere la parte più accogliente, rassicurante ed i padri talvolta stanno stretti nella veste di madre sostitutiva. Dopo decenni di scontri, rivendicazioni, sgambetti è come se donne e uomini smarriti, esausti si trovassero in una terra di mezzo ad annusarsi con diffidenza, cercando di capire quale cammino intraprendere.

Nella rincorsa alla giusta parità di genere stiamo rischiando di incorrere nella volontà di creare l’identico. Ma ciò porterebbe ad una deriva pericolosa: il fatto di non identificare sé stessi e l’altro da sé relativamente ai ruoli che ricopriamo. La paura della differenza ci fa inciampare nel non riconoscimento delle caratteristiche speciali, preziose, intrinseche dei due generi. Ma questa paura rischia di allontanarci e di creare timori, diffidenze che fanno esplodere i rapporti.

Forse allora proprio il recupero delle peculiarità di genere, al netto chiaramente dei propri orientamenti sessuali, potrebbe aiutarci a ridefinire i contorni dei nostri ruoli in maniera più armoniosa ed equilibrata. Parlare da un lato di femminilismo, inteso come bilanciamento tra i progressi acquisiti e ancora da compiere nel percorso di parità di genere e l’esaltazione dell’essenza più autentica dell’essere donna; dall’altro di virilismo, concepito come sintesi tra riconoscimento e accoglienza delle nuove caratteristiche più vicine al mondo femminile, ma con la precisa consapevolezza dei requisiti e del ruolo virile (etimologicamente, contrapponendo vir a homo).

La “donna nuova”, per poter essere veramente tale, necessita di un “uomo nuovo”. Forse il raggiungimento di una virtuosa con-fusione potrebbe aiutarci nel prendere il nostro posto insieme agli uomini e portare con loro il peso dell’esistenza in questo mondo?