Dal lavoro alla violenza, le azioni che la politica può fare a favore delle donne

Time for change, colorful words on blackboard.

Sui social di questi giorni girava un significativo commento in accompagnamento alla richiesta di ritiro della proposta di legge Pillon: “settant’anni fa Simone de Beauvoir scrisse che sarebbe stata sufficiente una crisi politica, economica o religiosa per mettere in discussione i diritti delle donne ed eccoci qui”.

Altrettanto significativamente ieri Stefania Bariatti – proprio su questo sito – ha commentato: “sembra strano che si debba parlare di queste cose ancora nel 2019, a più di 70 anni dalla Costituzione” facendo un esplicito riferimento agli art. 3 e 37.

Bisogna peraltro riconoscere che, nonostante molteplici proposte di legge o di interventi legislativi a tutela o incentivo per il genere meno rappresentato e meno tutelato nel nostro apparato economico-sociale, non sono pochi i progetti lanciati e poi arenatisi o che, pur avendo seguito il loro normale iter fino alla conclusione positiva, non hanno trovato uno sbocco concreto e una definita realizzazione, come spesso brillantemente stigmatizzato da Monica D’Ascenzo.

Lentezza procedurale, distonia tra posizioni politiche differenti, insensibilità (o mancanza di cultura) della maggioranza parlamentare alla percezione del bisogno di protezione del genere oggettivamente più bisognoso sono state le tre principali cause di impedimento al legislatore di raggiungere l’alto e civile obiettivo della tutela e dell’incentivo che devono essere riservati alle donne, come acutamente rilevato nelle sue indagini statistiche da Linda Laura Sabbadini.

Attualmente una particolare congiuntura politica, determinata dalla crisi che attraversa l’Italia, ha creato un sottile filo conduttore fra non pochi colleghe e colleghi parlamentari che hanno avvertito il pericolo di una particolare recrudescenza maschilista e la necessità di una maggior tutela delle donne, specie sotto il profilo della sicurezza, del lavoro e della maternità. Un clima più sensibile e più colto che è stato anche aiutato e ispirato da importanti articoli sul tema, ricordo per tutti quelli di Maria Silvia Sacchi. Maggiore attenzione e solidarietà che hanno indubbiamente agevolato il clima per una pronta e importante adesione alla mia proposta di rinnovo della Legge Golfo-Mosca contro le discriminazioni di genere negli organi di governo delle società quotate: non c’è un parlamentare cui mi sono rivolta che abbia avuto esitazione. I firmatari che hanno consentito l’iniziativa così generosamente commentata dalla stampa meritano di condividerne il successo avendovi aderito convintamente e a prescindere dal loro gruppo politico di appartenenza. Facendolo, usando le parole di Veronica de Romanis, stanno permettendo di consentire un percorso virtuoso dell’emancipazione anche nella governance societaria italiana.

Potremmo a questo punto interrogarci su altri interventi normativi che potrebbero rispondere trasversalmente alla necessità di tutela delle donne.

Quando si affronta il tema della violenza siamo consci che leggi a tutela delle donne già esistono, ma un problema però resta: la corretta applicazione degli strumenti giuridici, partendo da quelli di investigazione e di protezione, che presentano una serie di criticità derivanti anche dal non sufficientemente tempestivo, efficace e specialistico intervento da parte delle forze di polizia giudiziaria e dell’autorità. Esempi eclatanti nei tremendi casi di “femminicidio”. Operatori giudiziari, polizia, avvocati e anche gli stessi magistrati, non sempre applicano con necessaria incisività, prontezza ed efficacia i numerosi istituti processuali e sostanziali esistenti. Non è inoltre sempre facile cogliere e disciplinare le svariate declinazioni di forme di violenza tanto subdole e sottili da non essere percepite e individuate come tali, se non da chi le riceve. La strada da fare è ancora molto lunga ed è obbligo del legislatore cercare di individuare e contrastare, insieme a quella fisica, anche la violenza psicologica.

C’è inoltre una forma paludata di violenza ogni volta che si verifica un controllo sull’autonomia della persona, che può essere anche economica, come quando una moglie vede sabotato ogni suo tentativo di trovare un lavoro. È un modo per renderla dipendente, così come tenerla all’oscuro delle entrate familiari, oppure espropriarla dei suoi averi per esercitare su di lei un continuo controllo. Quanti casi sottaciuti!

Ciò peraltro accade anche quando una donna è “single” e cerca di amministrare il proprio patrimonio o di gestire i propri risparmi o di impegnarsi in un investimento. Quanti silenzi, in proposito, che meriterebbero una netta sferzata anche a tutela delle professioniste e delle imprenditrici! Per loro le cose non vanno tanto meglio.
Ad esempio la discrezionalità nel caso di erogazione del credito diventa sovente un arbitrio e una forma di esercizio di potere non controllato. Imprenditrici e artigiane sono sempre sorprese del fatto che il loro problema non è isolato, ma diffuso, anche se non se ne parla.

Del resto, se si va a fondo, non si è neppure mai effettivamente concretizzato un progetto completo di Sistema Paese a favore dell’imprenditoria femminile o delle professioniste. Sono rimaste magari delle belle iniziative spot, ma isolate, senza un sistema nazionale, concretamente pianificato e organizzato con piani pluriennali e a vasto raggio finanziario ed economico.

E si potrebbe anche parlare della “concorrenza“ di categorie professionali, che serpeggia sovente come una forma di violenza inaudita. In questi giorni è emerso in Francia il caso della “Lega del Lol” che ha riguardato diversi giornalisti che sono stati sospesi, perché accusati di cyberbullismo nei confronti di colleghe, in gran parte donne, prese di mira sui social media. Professioniste – autrici di blog, giornaliste, addette alla comunicazione – che avevano posizioni di rilievo e si erano esposte a tutela delle donne. Prese di mira, apostrofate pubblicamente con battute crudeli volte ad emarginarle e a denigrarle. Le molestie le hanno perseguitate per anni e i responsabili sono una trentina di giornalisti, comunicatori, pubblicitari, grafici attualmente accusati di aver compiuto dei veri e propri atti violenti. Le dirette interessate, le vittime, oltre al disagio personale, hanno subito veri e proprie danni: morali e materiali.

Sorprendente l’analogia con alcuni casi di parlamentari, ministre e dirigenti in ambito pubblico, ma anche di professioniste come medici, avvocati, commercialisti che hanno subito analoghi attacchi “in branco”. La violenza si annida anche nei luoghi più insospettabili. Non sono rari i casi di bravissime dirigenti di importanti istituzioni ingiustificatamente rimosse dai loro incarichi, ricercatrici di chiara fama duramente attaccate sul piano personale al punto da dover cambiare anche Stato. Con riferimento a quest’ultima fattispecie c’è anche un’altra forma di violenza che allo stato attuale non trova tutela: parliamo del fenomeno “gaslighting”, diffuso in ambienti di lavoro competitivi. Viene messo in atto quando si decide di attaccare donne che hanno ruoli importanti, ma anche nel caso di accademiche e ricercatrici. Una forma di violenza psicologica nella quale vengono presentate alle vittime false informazioni con l’intento di farle dubitare della loro stessa memoria e percezione. E’ successo a top manager. E’ accaduto a ricercatrici importanti con l’effetto di privazione di importanti riconoscimenti internazionali.

Sarebbe utile cominciare a prevedere come arginare questi comportamenti e opportuno prevedere, con la giusta normativa, un reale contrasto, diverso e ben più mirato rispetto a quelli offerti attualmente. Confrontandomi con alcune colleghe è emerso che potrebbe essere utile l’introduzione di un organo di controllo, in altre parole di un “garante”, avente competenze di monitoraggio e tutela idonea, ma anche di coordinamento territoriale. Lella Golfo aveva ipotizzato qualcosa in proposito.

Un’altra tematica di intervento non ancora completato è la disciplina del lavoro. Anche in questo caso partiamo da più di 60 anni dal Trattato CEE, che all’art. 119 assicurava la parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro. La Corte di Giustizia con la quarantenne sentenza Defrenne ne ha sancito la diretta applicabilità all’interno degli Stati membri. Bariatti ieri sottolineava che di fronte alla discriminazione derivante da una legge nazionale o da un contratto collettivo di lavoro, sia in caso di diversa retribuzione di lavoratori di sesso femminile e di sesso maschile, se questi svolgono lo stesso lavoro e se lo svolgono nella stessa azienda o ufficio, pubblico o privato, i giudici nazionali possono intervenire sempre. Eppure, ancora, tutt’oggi non esiste una reale uguaglianza di trattamento sul posto di lavoro: spesso le donne, anche in posizioni apicali e strategiche, subiscono un evidente trattamento che le porta a vivere una condizione di subalternità rispetto ai loro colleghi di sesso maschile.

Altro tema, nell’ambito del piano di sostegno ai cittadini italiani indigenti con l’obiettivo di azzerare la povertà assoluta, sarebbe l’inserimento delle pensioni per le mamme. E per quanto riguarda le casalinghe andrebbe ripensata la possibilità di un concreto sostegno economico, soprattutto ora che sono stati introdotti meccanismi sul reddito di cittadinanza che non tengono conto di tale realtà importante: in Italia, ad oggi, sono circa 500 mila le donne che non lavorano e si dedicano a tempo pieno alla famiglia e alla casa. Per poter ottenere la pensione, le mamme casalinghe devono iscriversi al Fondo casalinghe Inps, un’iscrizione che non obbliga al versamento di un minimo contributivo. Per ottenere la pensione, però, sono necessari cinque anni di contributi versati. Le mamme casalinghe, che si dedicano alla casa, alla famiglia, sono la colonna portante del nucleo familiare, e sono solo loro a lavorare ininterrottamente, di sera, di notte, nei giorni festivi e d’estate. Un contributo mensile permetterebbe di vedere gratificato il loro lavoro. Si tratta, come è facile capire, di un argomento molto sentito e di grande importanza. Personalmente lo riterrei ben più meritevole del reddito di cittadinanza per come è stato concepito.

Un’ulteriore miglioria sulla tutela del lavoro femminile, riguarda la proposta di deducibilità di oneri sostenuti per badanti e baby-sitter. Personalmente ho fatto un’interpellanza e attendo di poterla discutere in Aula avendola diretta al Governo. Quante volte la non deducibilità impedisce alla donna di trovare un’occupazione per l’intera giornata lavorativa!

In alcune famiglie ci sono inoltre componenti affetti da patologie che necessitano di cure e assistenza costante e grava spesso un importante impegno economico per stipendiare personale adatto. La donna assume il ruolo di cura e affonda in una spirale di annichilimento totale di forze e di energie che la portano allo sfinimento. Adesso per chi assume un lavoratore domestico le agevolazioni fiscali per chi ricorre a un regolare contratto sono pressoché inesistenti: si possono dedurre solo i contributi, fino a un massimo di 1.500 euro l’anno, mentre si possono detrarre i contributi per le badanti di persone non autosufficienti, fino a un massimo di 200 euro l’anno.

Credo che avrebbe senso valutare con favore la possibilità di abbattere i costi a carico delle famiglie che hanno un aiuto in casa, una colf, una badante oppure una baby-sitter, pensando ad una totale deducibilità delle spese sostenute per pagare i collaboratori domestici in regola. Ciò avrebbe anche l’effetto di controllare le provenienze di persone spesso prive di permessi di soggiorno, imponendo la regolarizzazione e la trasparenza dei compensi. L’economia circolare ne trarrebbe una ulteriore serie di benefici.

Anche in questo caso l’introduzione di un organo di controllo, in altre parole di un “garante”, avente competenze di monitoraggio e tutela idonea, ma anche di coordinamento territoriale, non sarebbe da sottovalutare.

I precedenti governi, e anche quello attualmente in carica, si sono concentrati riguardo alla maternità sul bonus bebè, sicuramente encomiabile iniziativa che però non risolve i problemi, di cui la politica può farsi carico, delle donne che hanno problemi ad affrontare la maternità. Si parla, ovviamente, di quelle difficoltà relative alle questioni economiche, per le persone meno abbienti, di quelle legate all’attività lavorativa che spesso deve essere interrotta e, ancora più spesso, non si riesce a riprendere e, ancora, anche a quella meramente organizzativa per le donne sole, o che non hanno un aiuto per gestire tutto ciò che avere un figlio comporta. Anche se l’occupazione femminile aumenta, conciliare impegni familiari e lavorativi non è mai semplice.
Non a caso si parla di “mamme equilibriste”. Al lavoro domestico, come già detto, nella fascia d’età tra i 25 e i 44 anni, le donne dedicano 3 ore e 25 minuti al giorno, contro un’ora e 22 minuti degli uomini. Lo stesso vale per il lavoro riservato alla cura dei familiari conviventi. Non sono da trascurare i dati relativi alle interruzioni del rapporto di lavoro non volontarie e alle pratiche illegali portate avanti per troppo tempo da molti datori di lavoro attraverso le diffuse dimissioni in bianco. Le interruzioni di lavoro da parte delle giovani madri sono tutto fuorché una scelta volontaria.

Avrei ancora non pochi argomenti da trattare ma spazio e tempo non ne concedono di più (per ora)!