Apicoltori-supereroi: I Buoni che fanno ricerca senza fondi

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Oggi è il 12 febbraio e si festeggia l’International Darwin Day. Tutti conoscono l’importanza di Darwin per la scienza, ma in pochi sanno che quando partì per la spedizione durante la quale concepì la sua rivoluzionaria teoria sull’origine della specie, la prospettiva era di un viaggio senza limiti temporali e senza alcuna retribuzione. Il problema dei finanziamenti alla ricerca arriva dunque da lontano.

Qualche dato italiano: i nostri ricercatori, oltre ad avere situazioni contrattuali instabili e dipendenti da fattori spesso esterni ai risultati del loro lavoro, guadagnano mediamente meno dei loro colleghi oltremare e decisamente meno dei loro colleghi tedeschi, islandesi o danesi, per rimanere in Europa.

Sappiamo bene che in molti scelgono di andare all’estero, alimentando un fenomeno che cela la sua gravità dietro un nome da barzelletta, “fuga dei cervelli”. Ma qualcuno decide di restare e inventarsi un modo per fare ricerca così come la si vorrebbe fare. Magari senza monetizzare, investendo su qualcosa che ha un valore, ammettiamolo, nell’economia a lungo termine che ci riguarda tutti: la conoscenza. Quella a cui ci appelliamo quando un allarme minaccia la nostra sopravvivenza.

Nel 2006 dagli Stati Uniti è partito un sos per il Colony Collapse Desorder, in italiano sindrome dello spopolamento degli alveari. Un problema che riguarda le api. In pratica gli alveari si svuotano ma non si capisce perché. Le api abbandonano la regina e le larve, vagano disordinatamente per poi morire a pochi chilometri dall’alveare. L’ape è un simbolo di intelligenza e produttività, ha stuzzicato filosofi e statisti come rappresentazione di una perfetta repubblica o persino di stato socialista. Eppure all’improvviso sembra essere impazzita: non più uno sciame che come un corpo unico abbandona l’alveare per creare una nuova colonia, questa sarebbe la sciamatura e non avrebbe nulla di allarmante. Bensì un insieme di individui che si disperdono e muoiono. Per capire la portata del problema consideriamo che secondo la FAO circa il 70% delle colture che forniscono prodotti alimentari destinati all’uomo si riproduce grazie agli insetti, soprattutto api. Di più: è stato stimato che il valore dell’impollinazione svolta dagli insetti si aggira attorno ai 150 miliardi di euro all’anno.

E in che termini di valore si può stimare l’apporto che le api offrono alla conservazione della biodiversità, nonostante le continue ingerenze umane negli ecosistemi di ogni latitudine? Un biologo può emozionarsi di fronte a questa domanda e sentire l’urgenza di spiegare perché è così importante indagare le cause del CCD, raggiungere una soluzione, quasi che ne andasse della sopravvivenza della specie umana stessa. Biologi e scienziati naturali, entomologi e biotecnologi, sono forse loro i supereroi a cui dobbiamo appellarci quando i problemi si fanno gravi, come nel caso delle api.

Alcune arnie dell'apiario #20BUONI dell'Associazione BUONO presso l'Oasi Lipu di Castel di Guido

Alcune arnie dell’apiario #20BUONI dell’Associazione BUONO presso l’Oasi Lipu di Castel di Guido

Nell’entusiasmo di questi ragionamenti, incrociare I Buoni mi è sembrato un po’ come imbattermi in una banda di supereroi. Il loro superpotere è l’amore per la scienza.
Sono sei ragazzi tra i 33 e i 39 anni, laureati in ambito scientifico, e insieme si prendono cura di 20 arnie collocate in un’oasi Lipu nei pressi di Roma. Il progetto ha uno statuto associativo, diversamente non potrebbe essere, non ha scopo di lucro ed è autofinanziato. Tutto parte nel 2014 con un crowfunding, di cui Carlo Taccari, uno dei fondatori, dice: “Ci piaceva pensare che al contributo che volevamo dare ad una causa di interesse comune partecipasse anche la comunità intorno a noi”.

Api in volo presso l'apiario #20BUONI dell'Associazione BUONO situato all'interno dell'Oasi Lipu di Castel di Guido.

Ad oggi hanno prodotto la prima smielatura, ma vendere il miele è un’attività collaterale: il vero scopo è studiare le api, l’alveare, gli agenti esterni, i fattori urbani e ambientali che possono turbarne l’equilibrio. Hanno il sostegno dell’Istituto Zooprofilattico del Lazio e della Toscana, della Lipu e dell’Università la Sapienza, ma il loro lavoro si regge soprattutto sull’autofinanziamento e le donazioni. Per questo la divulgazione è tra le loro priorità. Continua Carlo Taccari: “Abbiamo messo in pratica quello che sappiamo fare: studiare, capire un problema e raccontarlo. Come se fossimo api, possiamo raggiungere l’altra parte della terra, ma invece che farlo con una danza scriviamo un post in internet. Questo non risolve i problemi, ma ci fa ottenere attenzione per spiegare che siamo tutti parte di un organismo più grande e col nostro stile di vita possiamo fare qualcosa. Siamo una generazione cresciuta nel consumismo, alimentata con prodotti industriali, i nostri genitori avevano problemi diversi da noi. Ma se l’evoluzione è adattamento, noi dobbiamo adattarci ai nostri tempi e se necessario cambiare le nostre abitudini”.

Percorsi didattici BUONOI Buoni progettano percorsi didattici, scrivono articoli per la comunità scientifica sulle loro ricerche, ogni anno dipingono le loro arnie per il gioco online dei 20Buoni che serve a fidelizzare una community. In tutto questo il loro “vero lavoro”, quello cioè con cui si mantengono, è un altro e non per tutti in ambito prettamente scientifico. Con disincantata amarezza Carlo afferma: “Il lavoro è un male necessario con cui percepisci un profitto che ti permette di fare altre cose. Io metto a disposizione de I Buoni le mie competenze perché so che contribuisco al bene mio e di quelli che verrano dopo”.

D’altra parte la spedizione non retribuita di Darwin ha cambiato il corso del pensiero scientifico contemporaneo. Gli scienziati sono come gli artisti: sanno di lavorare per un bene superiore, il denaro è una necessità collaterale. Ma pur sempre una necessità.
L’ultima domanda che ho fatto a Carlo Taccari è tendenziosa: gli ho chiesto dove sente di collocare il lavoro de I Buoni, se nel volontariato, nell’hobbistica o nell’impresa sociale. Non gli è piaciuta la domanda. Ma a me è piaciuta molto la sua risposta: “Noi non stiamo facendo impresa. Stiamo compiendo un’impresa. Lavoriamo per spiegare alle persone che abbiamo il potere di cambiare le cose”. E se questo non è lavoro da supereroi.