
Nessun Paese al mondo ha raggiunto la piena parità di genere. A trent’anni dalla Conferenza mondiale sui diritti delle donne di Pechino, nel 1995, tanti passi avanti sono stati fatti. Ma un impegno sinergico, che metta al centro la capacità delle donne di essere agenti del cambiamento, continua a essere fondamentale per raggiungere in pieno l’obiettivo parità. A scattare una dettagliata fotografia è il nuovo atlante di WeWorld, “Claiming Space”, presentato il 27 novembre a Roma, durante l’evento “Claiming Space: ripensare il genere nella cooperazione allo sviluppo e negli interventi umanitari” organizzato insieme all’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo.
Ripensare gli spazi che le donne devono abitare
«Dal lancio della Piattaforma d’Azione di Pechino, nel 1995, non c’è mai stato un momento migliore o peggiore per essere donna», spiega Stefania Piccinelli, direttrice cooperazione internazionale di WeWorld. «Migliore perché è innegabile che siano stati fatti passi avanti in materia di parità di genere, peggiore perché i diritti conquistati sono sotto attacco». Un pericolo che riguarda tutto il mondo e che va affrontato inserendo la dimensione di genere in ogni progetto di cooperazione internazionale. «La parità di genere è una priorità in tutti i progetti che realizziamo. Il gender mainstreaming non è una verniciata da applicare, ma l’aspetto essenziale che può determinare la buona o cattiva riuscita di un progetto – sottolinea Marco Riccardo Rusconi, direttore dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo -. La ricerca Claiming Space ci invita non solo a descrivere le disuguaglianze, ma a ripensare gli spazi — fisici, sociali e politici — che le donne e le ragazze devono poter abitare pienamente».
I diritti delle donne, tra progresso e regressione
I dati raccontano una realtà ambivalente: mai nella storia le donne hanno avuto così tante opportunità, eppure mai come oggi i loro diritti appaiono così fragili. «L’atlante è una lettura preziosa perché ci offre numeri, storie e geografie diverse dei diritti e delle disuguaglianze», spiega Beatrice Vecchioni, capo ufficio III e gender focal point della Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo. «Leggere la realtà a partire da questi dati è la cosa più importante per indirizzare le nostre azioni».
Dal rapporto emergono luci e ombre. Tra le evidenze virtuose c’è il fatto che oggi 162 Paesi hanno leggi che vietano la discriminazione di genere sul lavoro. Anche sul fronte dell’istruzione, la situazione per le bambine è migliorata: più ragazze frequentano la scuola, conseguono lauree e spesso ottengono risultati migliori dei ragazzi. Tuttavia, solo il 35% dei laureati Stem è donna. Inoltre le barriere restano alte per chi vive in aree rurali, ha disabilità o si trova in contesti di conflitto. Rispetto alla partecipazione femminile in politica e la leadership, l’atlante registra importanti avanzamenti: 25 Paesi hanno donne al più alto livello esecutivo e in 18 Paesi una donna ricopre contemporaneamente le cariche di capo di Stato e capo di governo. Il progresso non è stato lineare: crisi globali come la pandemia di Covid-19, conflitti armati ed emergenze economiche e climatiche hanno rallentato il cammino e ampliato le disuguaglianze. Nel 2024, quasi un quarto dei Paesi ha registrato un contraccolpo ai diritti delle donne e, in oltre 25 Paesi in crisi, servizi essenziali come salute materna, pianificazione familiare e protezione dalla violenza sono stati ridotti.
Violenza, il fenomeno rimane strutturale
Un percorso a ostacoli è anche quello che riguarda la violenza contro le donne: oggi esistono 1.718 misure legislative operative in 188 Paesi per contrastarla, ma stanno emergendo nuove forme di violenza, comprese quelle facilitate dalla tecnologia che richiederanno sempre maggiore attenzione. Lo stesso vale per i matrimoni precoci: continuano a colpire ancora molte bambine, sebbene dal 2003 al 2023 la quota di ragazze costrette a sposarsi prima dei 18 anni si sia ridotta dal 24% al 19%. Ogni regressione va monitorata e, per continuare a percorrere la strada verso la parità, è necessario intervenire con criteri precisi. «Nel mondo – sottolinea Piccinelli – la regressione dei diritti di donne e ragazze è ormai un fatto politico, non solo sociale. Serve una leadership femminista, basata sulla cura, sull’equità e sulla giustizia sociale».
I passi indietro: 119 milioni di ragazze fuori dalla scuola
La Conferenza di Pechino, trent’anni fa, ha rappresentato un punto di svolta per i diritti delle donne. Ma il percorso è ancora lungo e, alcuni tra i più significati dati raccolti dal report, lo raccontano bene: 119 milioni di ragazze sono ancora fuori dalla scuola; ogni dieci minuti una donna o una ragazza viene uccisa da un partner o un familiare; il 70% delle donne in contesti umanitari subisce violenza di genere; oltre 200 milioni di donne non hanno accesso a contraccettivi sicuri; gli aborti non sicuri causano circa 39mila morti prevenibili ogni anno; le donne godono in media solo del 64% dei diritti legali degli uomini e guadagnano il 20% in meno per lo stesso lavoro. «Le disuguaglianze di genere si aggravano nei contesti più fragili, dove si sommano crisi economiche, tagli ai finanziamenti e retoriche conservatrici che minacciano i diritti sessuali e riproduttivi» evidenzia Piccinelli, che aggiunge: «Per cambiare davvero, servono approcci trasformativi, locali e guidati dalle donne stesse, che riconoscano l’intersezione tra genere, povertà, razza e identità».
Cambiare le strutture che generano disuguaglianza
La forza dell’atlante “Claiming Space”” sta nel suo pragmatismo verso il cambiamento, con un approccio gender-transformative e women’s voice-based che si pone un obiettivo preciso: non solo rispondere ai bisogni, ma cambiare le strutture che generano disuguaglianza. «Le donne sono tra i gruppi più vulnerabili. Ma anche tra quelli con le maggiori potenzialità – spiega Dina Taddia, ceo di WeWorld –. Coinvolgerle nei nostri progetti ha dimostrato maggiore successo: cambiare la vita di una donna cambia la vita di una comunità». In questa direzione si muove il gender-transformative approach: non limitarsi ad «aggiungere la prospettiva di genere», ma integrarla in ogni azione e progetto, in ogni comunità, in ogni contesto. Acquisire un approccio di genere che sia trasformativo significa lavorare sulle norme culturali, sulle relazioni di potere, sulle pratiche quotidiane, perché il cambiamento diventi duraturo e strutturale. I progetti di WeWorld – dal Kenya all’Afghanistan, fino alla Palestina- mettono donne e ragazze al centro dei processi decisionali, promuovendo governance inclusiva, leadership femminile e giustizia di genere. «Riaffermare lo spazio delle donne non è un tema accessorio – sottolinea Luca Fratini, coordinatore per l’Agenda Donne – ma una condizione fondamentale per qualsiasi percorso di pace, sviluppo e resilienza».
Le raccomandazioni per governi e istituzioni internazionali
«L’uguaglianza di genere non è un tema settoriale, ma un motore di trasformazione per lo sviluppo sostenibile», ricorda Rusconi, direttore Aics. Per fare in modo che questa prospettiva sia effettiva, l’atlante rivolge alcune raccomandazioni contenute ai governi e alle istituzioni internazionali. Tra queste: finanziamenti strutturali e di lungo periodo alle organizzazioni femministe; centralità della leadership locale nei processi decisionali; integrazione della prospettiva di genere in tutti i settori della cooperazione; monitoraggio sugli impatti reali per evitare approcci formali e non trasformativi; coraggio politico per contrastare i contraccolpi anti-diritti. La parità di genere, afferma il rapporto, è da intendere non come un capitolo a sé nei programmi di sviluppo. Ma come la condizione fondamentale per renderli efficaci: così “Claiming space” chiede alla cooperazione internazionale un cambio di passo. Dove arretrano i diritti delle donne, arretra tutto il resto. «Sostenerle non è solo una questione di equità – conclude Piccinelli- ma di efficacia».
“Corpi in rivolta” per dare voce ai margini
Insieme alla presentazione dell’atlante, nella stessa giornata, un altro debutto nel segno dei diritti: “In Rivolta. Manifesto dei corpi liberi” (Castelvecchi) è l’opera corale realizzata da WeWorld con l’obiettivo di raccogliere oltre venti voci – attiviste, giornaliste, scrittrici, economiste, professioniste della medicina di genere – capaci di farsi «corpi in rivolta» e tenere insieme analisi, testimonianze e pratiche di resistenza. «I contributi mostrano come la libertà (o la negazione della libertà) si esprima attraverso i corpi: dalla possibilità di decidere sulla propria maternità, alla sicurezza di muoversi senza paura per persone queer, al diritto di studiare e lavorare senza ostacoli per le donne con disabilità», si legge nella presentazione del testo, i cui proventi saranno destinati ai progetti di WeWorld per la promozione dei diritti delle donne in Afghanistan e Palestina. Ogni corpo che prende parola rompe una norma e produce trasformazione: parlare di corpi significa parlare di potere. Lo stesso da cui le donne sono state escluse e che, tuttavia, stanno riscrivendo in tutto il mondo.
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