La piccola Islanda ha preso di petto l’annosa questione della disparità retributiva tra uomini e donne imponendo per legge, alle imprese pubbliche e private con più di 25 dipendenti, la certificazione della parità di trattamento, puntando così alla eliminazione della discriminazione salariale di genere.
Si noti che l’obiettivo della legge appena promulgata dal Parlamento islandese non è quello di vietare la discriminazione di genere, poiché quest’ultima è già vietata fin dal secolo scorso in Islanda come in ogni altro Paese europeo (cfr. la direttiva 75/117/EEC1 che sancisce la parità di retribuzione per lavoro di pari valore).
L’obiettivo della nuova legge non è neppure quello di eliminare l’intera differenza di retribuzione tra uomini e donne, poiché quest’ultima dipende principalmente dalle differenti caratteristiche produttive dei due sessi, che rendono pienamente legittima la differente retribuzione. Ciò che la nuova legge intende eliminare è solo la componente non spiegata del differenziale, ovvero quel residuo non riconducibile ad alcuna variabile che possa giustificare una differenza di produttività e quindi di retribuzione.
La piccola Islanda ha ritenuto che il persistere di una disuguaglianza inspiegabile nelle retribuzioni, pur se minima (circa il 6% contro il 22% di quella spiegabile), fosse una provocazione inaccettabile, dopo anni e anni di legislazione antidiscriminatoria. E pur consapevole delle sofisticate obiezioni metodologiche per le quali un residuo non spiegato può essere causato dalla discriminazione, ma può derivare anche dall’insufficienza delle informazioni o dalla inadeguatezza delle loro elaborazioni, la piccola Islanda ha risolutamente tramutato in legge la sua non ambigua posizione in proposito: qui da noi non ci deve più essere alcuna componente inspiegabile della differenza di retribuzione tra uomini e donne; o sono chiare ed evidenti le ragioni che legittimano la differenza, o la differenza deve scomparire. Punto e basta.
La legge richiede, in primo luogo, che le imprese adottino un modello di classificazione delle mansioni neutrale rispetto al genere, come previsto dalle linee guida degli standard internazionali dei sistemi di gestione salariale del tipo ISO 9001. In secondo luogo, le imprese devono rendere disponibili ai revisori tutti i dati necessari affinché essi possano procedere alle elaborazioni, e devono redigere un rapporto che dimostra che l’azienda paga la stessa retribuzione, per lavoro di uguale valore, a uomini e donne. Il Centro pubblico per l’uguaglianza di genere (Jafnréttisstofa), emetterà il suo verdetto in base ai risultati prodotti dai revisori, e le aziende in regola con la legge riceveranno la Certificazione di parità di retribuzione (Jafnlaunavottun).
E’ bene specificare che, nella definizione attualmente utilizzata da Eurostat, il differenziale salariale di genere rappresenta la differenza tra la retribuzione media oraria lorda maschile e quella femminile, espressa non in valore assoluto ma come percentuale della retribuzione maschile. Questa differenza grezza può essere ripartita, elaborando i dati secondo la metodologia di Oaxaca-Blinder, in due componenti. La prima componente rappresenta la parte del differenziale imputabile alle diverse caratteristiche individuali che possono influire sulla produttività (età, titolo di studio, professione, livello di inquadramento, settore di attività, dimensione aziendale, intelligenza, intraprendenza, precisione, affidabilità ecc.). La seconda componente rappresenta invece il residuo che non è riconducibile ad alcuna differenza di produttività. Poiché non vi è ragione per la quale donne e uomini con le stesse caratteristiche produttive debbano ricevere retribuzioni differenti, questo residuo prende il nome di discriminazione di genere.
E’ importante notare che solo se l’analisi dei dati produce risultati che mostrano differenze di genere a parità di ogni altra condizione si può parlare di discriminazione. La disponibilità di informazioni è di importanza cruciale a tale proposito, perché le ricerche hanno dimostrato che tanto più ampia è l’informazione, cioè quanto più elevato è il numero di variabili esplicative che entrano nell’analisi dei dati, tanto minore risulta essere la componente non spiegata del differenziale stesso, cioè la discriminazione.
I differenziali retributivi, d’altro canto, non colgono tutti gli effetti della discriminazione, ma ne rappresentano soltanto una parte. Ad esempio, se la retribuzione dei dirigenti dimostra che non vi è alcuna disparità salariale tra donne e uomini con le stesse caratteristiche produttive, ciò non esclude che la discriminazione nelle procedure di assunzione e nei criteri di promozione renda più difficile per le donne l’abbinamento alle posizioni dirigenziali.
Ci si potrebbe domandare, allora, come mai proprio la piccola Islanda abbia sentito l’urgenza di approvare una legge che intende eliminare solo una piccola parte delle differenze retributive, che affronta solo il problema della discriminazione salariale ma non quello della discriminazione nelle assunzioni e nelle promozioni, che non intacca la parte spiegata del differenziale retributivo, cioè quella riconducibile a segregazione formativa o professionale e al condizionamento degli stereotipi di genere, ma attacca solo il suo residuo non spiegato.
Stefán Ólafsson (Università dell’Islanda) spiega che “l’obbligo di certificazione riuscirà a diffondere ulteriormente l’ethos di genere nella società islandese, sia direttamente sia indirettamente”, e l’etica della parità di genere deve proprio essere una cosa seria, per gli islandesi e le islandesi. A casa loro, l’attuale Primo ministro è donna, e non è neppure la prima: quasi il 50% degli eletti in Parlamento è di genere femminile; e, per la prima volta in Europa, una donna è stata eletta alla Presidenza della repubblica fin dal secolo scorso (dal 1980 al1996).