Che fine farà il lavoro? Nell’epoca dell’AI, questa è la domanda più gettonata. Secondo il Future of jobs report 2025 del World Economic Forum, i ruoli legati alla tecnologia sono quelli che cresceranno più rapidamente nei prossimi anni in termini percentuali ma, in valori assoluti, saranno i “lavori essenziali” a conoscere un vero e proprio boom. In prima linea: i lavoratori e le lavoratrici del comparto agricolo, della cura e del delivery. Dunque, con chi o con cosa saremo in competizione?
«I lavori essenziali non spariranno per tre ragioni: in primo luogo, hanno una natura materiale e sono fondati su compiti spesso manuali meno automatizzabili. In secondo luogo alcuni di questi lavori sono contraddistinti da salari bassi che non spingono a cercare soluzioni basate sull’intelligenza artificiale. Infine in molti di questi comparti l’occupazione cresce perché la distruzione creatrice di Internet sta dirottando molta della domanda su un approccio più centralizzato al commercio, con una crescita degli operatori di logistica e trasporti» commenta Paolo Neirotti, direttore della Scuola Master del Politecnico di Torino. «L’avanzata di data scientist ed esperti di big data, invece, non sorprende ma al contempo non crescerà all’infinito. Sono ruoli che richiedono un’elevata specializzazione e per una grande impresa può essere sufficiente anche un team ristretto».
Le competenze più a rischio
Su cosa si giocherà, dunque, la partita con l’AI? Il Wef ha valutato la capacità di sostituzione da parte dell’intelligenza artificiale generativa (GenAI) per 2.800 competenze secondo cinque categorie: capacità molto bassa, capacità bassa, capacità moderata, capacità alta e capacità molto alta. Zero delle oltre 2.800 competenze valutate hanno mostrato una possibilità “molto alta” di essere sostituite dall’attuale GenAI.
Il 69% ha una “capacità molto bassa” o “bassa” di essere sostituita, il che indica che la GenAI è attualmente limitata. Le abilità più tipicamente umane, basate su empatia, ascolto attivo e capacità di elaborazione sensoriale, non mostrano, secondo lo studio, alcun potenziale di sostituzione, a differenza di quanto accade nel machine learning, nella lettura, nella scrittura, nella matematica e nel multilinguismo. In particolare, più di un quarto (28,5%) delle oltre 2.800 competenze esaminate presenta attualmente una “moderata capacità di sostituzione”.
L’AI come collega e l’intelligenza emotiva
«Il punto non è capire se e come l’AI cannibalizzerà o potenzierà alcuni dei lavori che conosciamo, ma come interagiremo noi con quello che a tutti gli effetti potremmo definire un “nuovo collega”. ChatGPT, o chi per lui, è un collega spesso pedante, impreciso e testardo. Di cui però non potremo più fare a meno» fa notare Alberto Mattiello, esperto di innovazione tecnologica e di business, mentore presso numerose aziende e università, tra cui l’Imperial College of London e l’Università Bocconi di Milano.
«L’errore che commettiamo più spesso – prosegue Mattiello – è approcciare l’AI solo da un punto di vista tecnico, ma le barriere tecnologiche all’ingresso sono molto basse. Ciò su cui dovremmo concentrarci sono le soft skills. Per essere adeguati alla trasformazione in atto, dovremo essere pronti a cercare sempre nuove risorse, dovremmo allenare la creatività e lo spirito critico, favorire la condivisione delle emozioni e della conoscenza. In futuro, le aziende avranno più bisogno di terapisti che di consulenti».
Un aspetto, questo, sottolineato anche dal Wef. Le competenze che richiedono una comprensione ricca di sfumature, la risoluzione di problemi complessi o l’elaborazione sensoriale mostrano, infatti, un rischio limitato di sostituzione da parte della GenAI. Nel quinquennio 2025-2030 continueranno a crescere di importanza capacità come la resilienza, la flessibilità e l’agilità, la curiosità, l’apprendimento continuo, l’alfabetizzazione tecnologica e di programmazione. Rafforzeranno la loro importanza, inoltre, la leadership e il pensiero sistemico, la motivazione e l’autoconsapevolezza. In sostanza, le competenze umano-centriche diventeranno sempre più rilevanti. Secondo una ricerca di Capgemini Institute condotta su oltre duemila persone, infatti, più del 70% dei dirigenti intervistai ha affermato di ritenere l’intelligenza emotiva un’abilità indispensabile per il futuro del lavoro. Una competenza su cui è urgente formarsi.
L’avanzata dei talenti minotauri
E cosa accade nel mondo dei freelance? L’indagine “Who is AI replacing? The impact of GenAI on online freelancing platforms” analizzando l’impatto delle tecnologie di intelligenza artificiale generativa sulla domanda di freelance nelle piattaforme online di ricerca lavoro ha evidenziato un calo del 21% nel numero di offerte per mansioni soggette ad automazione, come la scrittura e la programmazione, e del 17% nelle offerte di lavoro relative alla creazione di immagini. Secondo Francesco Marino, cofounder di Cosmico, realtà che riunisce oltre 25 mila freelance, per rimanere competitivi sul mercato sarà indispensabile integrare nelle competenze già acquisite delle specializzazioni.
«Dovremo essere dei “talenti minotauri”, ovvero avere una mentalità ibrida (umano + macchina), solide basi in tecnologie digitali, programmazione, data science e AI, oltre alla capacità di apprendere rapidamente nuovi strumenti» avverte Marino. Questo approccio potrebbe consentire non una perdita, ma anzi un’espansione delle opportunità professionali.
Un’indagine di Adzuna citata dal Thelegraph, non a caso, dimostra che l’utilizzo dell’AI potrebbe garantire retribuzioni più alte, soprattutto per alcune categorie professionali. Negli Stati Uniti, in cui il mercato del lavoro dell’IA è in piena espansione, i lavori correlati all’IA offrono stipendi più alti del 77% rispetto ad altre occupazioni.
Più produttività e retribuzioni più alte con l’AI?
«L’AI generativa si sta affermando come un nuovo strumento di lavoro “general purpose”, come è stato excel a partire dagli anni ’90, e non richiede competenze specialistiche per essere utilizzata. Per avere una crescita dei salari, però, occorre che non cresca semplicemente la produttività individuale di alcuni ruoli, ma quella generale delle imprese. Questo non è un passaggio automatico» mette in guardia Nerotti. Non necessariamente più AI si tradurrà in una maggiore produttività e in un incremento dei salari, quindi. Ma potrà comportare una crescita delle carriere più veloce nel breve termine per coloro che riusciranno a sviluppare modalità uniche e creative per sfruttarne le potenzialità nel proprio campo.
«Il Wef parla di oltre 170 milioni di nuovi posti di lavoro creati proprio dall’adozione di nuove tecnologie, tra cui l’AI, contro una perdita di 92 milioni di posti, con un incremento netto di 78 milioni di posti (pari al 7% dell’occupazione attuale). Sta a noi intercettare le nuove richieste di mercato. Ad esempio – precisa Marino – il software engineer, anche se è una figura già di per sé molto ricercata e competitiva nel mercato del lavoro, sarà ancora più attrattiva se si specializzerà in ambiti applicativi legati all’AI come la computer vision, il natural language processing/large language models e la generative AI. Inoltre, sarà fondamentale disporre di empatia e creatività per connettere le soluzioni tecnologiche con il lato umano e creativo, progettando esperienze che rispondano ai bisogni reali delle persone, insieme a flessibilità cognitiva e problem-solving strategico».
Faremo altro, ma cosa?
Eppure, più parliamo di avanzata delle competenze umane e più, al contempo, assistiamo al consolidarsi di nuovi trend come delle “one person billion dollar company”, ovvero legato alla creazione di aziende miliardarie gestite da un’unica persona fisica e da moltissimi “agenti digitali”. Già dodici anni fa, l’imprenditore e investitore Naval Ravikant (tra i primi a scommettere su società come Twitter, Uber e Yammer) sosteneva che le dimensioni delle aziende si sarebbero ridotte molto rapidamente e la sensazione è che in futuro, sempre di più, la tecnologia potrebbe consentire di creare aziende unicorno composte da un’unica persona. «Ci siamo sempre detti che avremmo delegato il lavoro alla tecnologia per consentire alle persone di fare “altro”. Ora, è arrivato il momento di chiederci cosa può essere questo “altro”. Di cosa ci occuperemo davvero?» – provoca Mattiello.
Al momento, le risposte tardano ad arrivare. Le stesse aziende non hanno chiara la direzione da seguire. «La vera sfida – sostiene il prof. Neirotti – è quella di lavorare sulla revisione dei processi e dei modelli di business, per gestire al meglio le interdipendenze tra compiti umani e automatizzati dall’AI. Il management deve affrontare cambiamenti sistemici, di tipo organizzativo, culturale e di business. Senza questi cambiamenti, avere più soluzioni di AI che automatizzano un certo tipo di lavoro, serve relativamente a poco».
La rivoluzione in mano alla GenZ
«Già oggi – avverte Mattiello – esistono oltre 28mila intelligenze artificiali che potrebbero radicalmente cambiare il modo di fare impresa, ma solo pochissimi le conoscono e le adottano. Siamo lenti, siamo ancora fermi in attesa di capire. Ma di fronte a questo genere di innovazioni, non possiamo pianificare: dobbiamo fare. E imparare facendo».
Forse, la mossa decisiva spetterà alle nuove generazioni: «La più grande popolazione mondiale, oggi, è composta da giovani tra gli 11 e i 26 anni. È una generazione interamente digitale che, specie nei paesi emergenti, ha voglia di cambiare le regole del gioco. E potrà farlo proprio grazie alle nuove tecnologie. Sarà questa – conclude il futurist Mattiello – la più grande rivoluzione dei prossimi anni».
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