Chat private mostrate in pubblico, interviste senza filtri ai familiari stretti, domande che insistono su particolari morbosi e che nulla aggiungono alla cronaca dei fatti. Un fiume di notizie che non serve a chiarire la dinamica di una vicenda che, in realtà, toglie ogni parola. Una ragazzina di 13 anni è stata uccisa dal suo ex 15enne, che ha poi raccontato che era stata lei a buttarsi da quel palazzo.
Non è bastata neanche la minore età della vittima, Aurora, e del suo assassino a evitare la spettacolarizzazione di questa terribile storia, una spettacolarizzazione andata in scena soprattutto in quella della “tv del dolore” tipica di alcuni programmi di infotainment, quelli cioè che mischiano la cronaca (nera) con l’intrattenimento e il divertimento.
Una narrazione morbosa
«Colpisce in primo luogo la disinvoltura con cui vengono mostrati e resi pubblici i messaggi – scritti o audio – tratti dalle chat personali o i video pubblicati sui social in altri momenti, per esempio mostrandola mentre, cucina, ride, balla o mentre esprime a voce i suoi sentimenti e dubbi a qualche amica, senza domandarsi se anche questa sia in qualche misura una violazione della sua privacy (alcuni sono evidentemente privati) e della sua soggettività (perché anche il momento e il contesto in cui si sceglie di condividere è importante)».
Marco Deriu, sociologo e professore all’Università di Parma si occupa da anni di questi temi e mette in evidenza come, in questa narrazione, ancora una volta, «prevale la morbosità nel descrivere la relazione, i regali, le serenate, i commenti reciproci, ma anche la dinamica dell’assassinio con ripetute ricostruzioni video. Anche il modo con cui si indugia sul dolore e le lacrime dei famigliari o li si spinge ripetutamente a fare dichiarazioni o ad esprimere le proprie emozioni di pancia sull’autore, rientrano in un cliché purtroppo ormai collaudato di giornalismo, in specie – ma non solo – televisivo».
Regole per evitare la “tv del dolore”
Si tratta di elementi più volte stigmatizzati: come dice l’articolo 5bis del Testo unico dei doveri del giornalista, il racconto dev’essere il più possibile continente e corretto, privo di commenti e giudizi. Deve indagare la verità e riportarla nel miglior modo possibile, non indugiare nello stereotipo (come quello dell’amore romantico nei casi di femminicidio) e nel pregiudizio. Non cercare lo scoop facile, ingigantendo particolari per parlare alla pancia del lettore o il telespettatore.
La pericolosità della narrazione dei programmi di infotainment è stata riconosciuta anche dal rapporto della commissione Jo Cox del 2017: queste trasmissioni sono «spesso uno spazio dove hanno libero sfogo gli stereotipi di genere più vetero e talvolta vere e proprie volgarità sessiste», dice il rapporto. Vale la pena ricordare che parliamo di una tipologia di programma molto seguita: basti pensare che il programma leader nella fascia pomeridiana, La vita in diretta sulla Rai, in una giornata tipo arriva ai 2 milioni di spettatori con uno share di circa il 20%. Pomeriggio Cinque al 15% o poco meno, con quasi un milione e mezzo di spettatori. Proprio alla cosiddetta “tv del dolore” era dedicata una approfondita ricerca realizzata dall’Osservatorio dei media di Pavia con l’Ordine dei giornalisti nel 2014, ricerca che ha fatto scuola e i cui risultati sono ancora validi. In quello studio emergeva che nella maggior parte dei casi le vittime erano donne.
Tra le criticità evidenziate, l’Osservatorio citava l’enfasi elevata sulla partecipazione emotiva da parte di conduttori, inviati e ospiti, la commistione di ruoli degli ospiti tecnici (esperti indipendenti e al contempo consulenti di parte) e la ridondanza di informazioni e opinioni sui casi di cronaca più noti (information/opinion overflow).
La tutela dei “soggetti deboli”
Ma c’è un passaggio in particolare, di quella relazione, che vale la pena ricordare, dopo aver visto in tv l’intervista alla mamma di Aurora. Si tratta di un passaggio che riguarda i soggetti deboli, protagonisti di molte di queste trasmissioni. I minori, innanzitutto, le cui foto e video pubblicati sui social vengono utlizzati anche dopo la morte, per esempio, ma anche «i parenti e i conoscenti di vittime e indagati, non solo quelli minorenni».
Certo, si tratta di persone «che si prestano, che danno il proprio consenso alla partecipazione al reality del dolore – si legge nel rapporto -. Ma il consenso non è fattore che attiene alla razionalità, bensì all’emotività. Un consenso che è facile da raccogliere da soggetti con basse difese a cui il grande circo mediatico offre una possibilità di riscatto o di giustizia, fosse solo televisiva. Soggetti deboli appunto: sia in quanto tramortiti dalla sofferenza per la perdita tragica del loro congiunto, sia in quanto, magari, allettati da una celebrità improvvisa e inattesa, sia in quanto del tutto inconsapevoli del proprio ruolo all’interno del gioco, privi o privati della capacità critica di discernere l’utilità della propria testimonianza dallo sfruttamento della propria situazione da parte dei media».
Si tratta di soggetti deboli maggiorenni, quelli per i quali la Carta dei doveri del giornalista prescrive l’impegno «a usare il massimo rispetto», essendo soggetti di cronaca che «per ragioni sociali, economiche o culturali hanno minori strumenti di autotutela». Nei tre mesi oggetto dell’indagine, dice la ricerca, assai rari sono stati i casi in cui soggetti con profilo diverso da questi citati, si siano prestati o comunque siano stati coinvolti, secondo le modalità tipiche descritte nel report, nelle vicende raccontate.
Il rischio di normalizzare la violenza
C’è un ulteriore fattore che dobbiamo considerare, nell’esposizione del dolore e di fatti come questo in contenitori che, appunto, mischiano intrattenimento e cronaca nera, spesso alternando storie leggere a testimonianze e ricostruzioni drammatiche. Spesso i casi vengono seguiti nel tempo, per giorni, scandagliando i minimi dettagli delle vicende narrate: «Tutto questo rende queste storie di violenza vicine e familiari, le rende prossime al nostro vissuto. Un evento con cui si ha una frequenza di contatto non è più straordinario, non è un’eccezione ma diventa la norma», riflette Giuliana Torre, psichiatra e psicoterapeuta.
Un rischio di normalizzazione, quindi, che ci rende sempre più assuefatti alle violenze più terribili, che rischia di abbassare il nostro livello di attenzione su casi del genere: ci abituiamo, come diventassero fatti normali e quotidiani, di tutti i giorni. Che possono accadere. Quando, invece, gli sforzi devono essere quelli di far sì che non accadano più, che non accadano ancora.
Come non deve essere raccontata la violenza
Quello che abbiamo visto, nel caso terribile della morte di Aurora è il prevalere «non soltanto della spettacolarizzazione, della stereotipizzazione dei protagonisti, dei meccanismi di vittimizzazione secondaria, ma soprattutto una visione “fatalistica” della violenza; ovvero una rinuncia ad interrogarsi in profondità su una consuetudine culturale e sociale all’impiego della violenza nelle relazioni affettive da parte dei maschi che si va diffondendo in maniera sempre più preoccupante anche nella prima adolescenza», spiega Deriu, che fa anche parte dell’associazione Maschile Plurale. Nulla di tutto questo si è visto negli ampi spazi dedicati al tema, con titoli a effetto e foto della giovane prese dai social.
Il punto difficile da affrontare è proprio questo, secondo il sociologo: «Come vanno trasformandosi le relazioni tra i sessi in un contesto che per alcuni versi sembra più paritario e per altri ripropone e addirittura estremizza modelli di genere stereotipati. Al di là dei dispositivi di tutela e di contrasto sul piano della sicurezza, è urgente domandarci che tipo di rielaborazione sociale e culturale siamo in grado di produrre, per educare ed educarci a relazioni fondate sul riconoscimento e il rispetto dell’alterità, piuttosto che su un atteggiamento di controllo e di sottomissione delle figure a cui ci si lega, che da ultimo spegne qualsiasi possibilità di crescere e vivere pienamente certamente per chi è vittima diretta di questa violenza, ma anche per i famigliari e chi rimane, e persino per chi la violenza si illude di poterla utilizzare come un mero strumento per sentirsi più forte e più “maschio”».
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Se stai subendo stalking, violenza verbale o psicologica, violenza fisica puoi chiamare per avere aiuto o anche solo per chiedere un consiglio il 1522 (il numero è gratuito anche dai cellulari). Se preferisci, puoi chattare con le operatrici direttamente da qui.
Puoi rivolgerti a uno dei numerosi centri antiviolenza sul territorio nazionale, dove potrai trovare ascolto, consigli pratici e una rete di supporto concreto. La lista dei centri aderenti alla rete D.i.Re è qui.
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