Periferie: cosa si sta facendo per dare un futuro ai ragazzi?

Alessio-B per Super Walls – Biennale di Street Art di Padova 2021 – Ph. Credit Zeta Group

Quando qualcuno che arriva dalla periferia “ce la fa” (ad avviare un’impresa, a diventare famoso, a pubblicare un libro) rivendica sempre con un certo orgoglio la sua provenienza da un contesto disagiato (c’è chi ci costruisce sopra carriere intere), come se essersene tirati fuori fosse una vittoria contro il mondo benestante, ma certamente senza nessuna intenzione di tornare a far parte del mondo degli scomodi, nemmeno da vincitori. La periferia, d’altra parte, è un luogo di inquietudine. La narrativa dei media, ma anche quella letteraria, rimpolpa gli spazi periferici di simbolismi legati alla povertà, alla criminalità, alla mancanza di possibilità e a una non troppo celata idea di destini scritti e non sindacabili.

È lo spazio degli ultimi, di chi resta indietro, di chi parte in svantaggio e raramente riesce a recuperare. Là dove il caos patinato del centro si dissolve in un labirinto di strade stanche e casermoni fatiscenti, si dipana un panorama fatto di contrasti e disuguaglianze. Un luogo politicamente pieno di contraddizioni: riqualificare le periferie è la promessa urbanistica di quasi tutte le giunte delle grandi città, ma la realtà vissuta dai cittadini è un’endemica mancanza di infrastrutture e servizi, una disattenzione educativa, un senso di abbandono. E con tutto questo bisogna fare i conti.

Tanto più se consideriamo che è proprio nelle periferie che vivono moltissimi bambini e adolescenti in Italia. In luoghi che troppo spesso non offrono spazi, stimoli e opportunità adeguati alla loro crescita, e alimentano invece isolamento e marginalità.

I minori nelle periferie: una fotografia

Tra gli 0-19enni che vivono in Italia, ben 3 milioni e 785 mila, quasi 2 su 5, si concentrano nelle 14 città metropolitane, costituite dal Comune principale e dal suo hinterland, dove, in media, vive anche il 13,7% dei contribuenti con reddito inferiore ai 15 mila euro annui.

Una percentuale che supera il 50% a Reggio Calabria, Catania, Palermo e Messina, ma è molto elevata anche a Roma (38,8%) e Venezia (36,9 %). Tra i quasi 13 mila minori che sono senza casa o fissa dimora, 2 su 3 si concentrano nelle città metropolitane, dove si registra anche il 45% di tutti i provvedimenti di sfratto.

Nelle aree urbane caratterizzate da una maggiore privazione socioeconomica, spesso si osserva anche la carenza di spazi adeguati alla crescita dei minori. La percentuale di edifici scolastici senza certificato di agibilità raggiunge il 70% nelle città metropolitane (62,8% la media in Italia). Gli spazi di verde pubblico fruibile dove trascorrere tempo all’aria aperta risultano in media inferiori nelle grandi città, con 16 metri quadrati a disposizione di ogni bambino, contro i 19,5 della media nazionale. Inoltre per il 30,7% delle famiglie la carenza di mezzi pubblici è un limite concreto nella possibilità di raggiungere altri quartieri. Tutti questi dati sono stati riportati nel rapporto di Save the Children “Fare spazio alla crescita”, diffuso nell’ottobre 2023.

Povertà alimentare

Ma c’è anche un altro problema che riguarda gli spazi destinati ai minori: secondo i dataset del ministero dell’istruzione relativi all’anno scolastico 2022/23 (elaborati da Openpolis), in Italia solo un edificio scolastico su 3 ha annessa una mensa. La disponibilità più ampia è in Valle d’Aosta, con il 71,8% delle scuole. Seguono Piemonte, Toscana e Liguria (circa 60%), mentre la dotazione più bassa, inferiore al 20%, si registra in Campania (15,6%) e Sicilia (13,7%). Supera di poco questa soglia la Calabria (21,8%), mentre in Puglia, Abruzzo e Lazio la quota si attesta attorno a un edificio su 4.

Il servizio mensa nelle scuole è essenziale per garantire agli studenti, soprattutto quelli in condizioni di maggior bisogno, il consumo di almeno un pasto sano ed equilibrato al giorno. Secondo il rapporto sulla povertà alimentare di ActionAid (“Frammenti da ricomporre. Numeri, strategie e approcci in cerca di una politica”, dati 2021) 6 milioni di persone nel nostro Paese, il 12% dei residenti con almeno 16 anni di età, è in una condizione di povertà alimentare. Sono le famiglie monogenitoriali (16,7%) e quelle con 5 o più membri (16,4%) a registrare i tassi più elevati. Ciò vuol dire che la povertà alimentare colpisce i minori: 200mila bambini e ragazzi (il 2,5% della popolazione di questa fascia d’età) non è stata in grado di consumare adeguata frutta e verdura e di fare un pasto completo – contenente carne, pollo, pesce o un equivalente vegetariano – almeno una volta al giorno.

La dotazione delle mense nelle scuole è un servizio offerto e gestito dai Comuni, perciò paradossalmente è più presente e con maggiore qualità proprio nei Comuni più ricchi e organizzati del Paese. Laddove la povertà socioeconomica e la povertà educativa sono più incisive, invece, le mense sono più discontinue e meno curate. E ciò determina anche l’impossibilità di organizzare il tempo pieno, uno strumento fondamentale per combattere la dispersione scolastica, che genera benefici sia per gli studenti, accrescendone le possibilità di risultati scolastici migliori, sia per i genitori, con effetti positivi in particolare sull’occupazione femminile.

Quale impatto ha sui minori la povertà delle periferie?

“Come stai?” è la domanda fatta ai giovani e alle giovani delle periferie italiane coinvolte nei progetti di WeWorld, per tentare una fotografia con il report “Diritti ai margini. Rimettere al centro il futuro di bambini/e e adolescenti delle periferie italiane”. Questi minori sono stati interpellati sulla loro situazione socioeconomica ma soprattutto sulle loro emozioni, aspettative per il futuro, desideri e speranze.

A livello generale, le risposte più negative sono rivolte verso la scuola e vengono dagli 11-13enni: il 55,10% è poco/per nulla soddisfatto della scuola, così come il 20,41% dei 14-16enni. La loro idea di futuro è accompagnata, per quasi 3 giovani su 4, da ansia e inquietudine. Oltre il 43% dei ragazzi/e interpellati ha paura di non raggiungere i propri obiettivi nella vita; le preoccupazioni riguardano il fatto di “non guadagnare abbastanza soldi per vivere tranquillamente (38%), e non trovare lavoro (28%). Più del 27% dei partecipanti dichiara di preoccuparsi “spesso” per il lavoro dei propri genitori; i dati più negativi si registrano tra bambini e bambine con background migratorio. In particolare, tra gli 8 e i 10 anni, 3 bambini/e su 4 (76,92%) si preoccupano “sempre, spesso o qualche volta” per la condizione economica della propria famiglia.

Queste preoccupazioni possono avere ricadute su salute e rendimento scolastico, come nella scelta di abbandonare la scuola per contribuire al reddito familiare. “Per chi proviene da un contesto familiare di fragilità, l’educazione rappresenta uno strumento essenziale di mobilità sociale” commenta Dina Taddia, CEO di WeWorld, “che permette di contrastare le disuguaglianze di partenza e di accedere a opportunità lavorative per uscire da condizioni di esclusione e povertà. Se questa possibilità viene a mancare, aumenta il rischio di trasmissione intergenerazionale della povertà: infatti, i giovani che abbandonano gli studi precocemente sono disoccupati con maggiore frequenza rispetto ai coetanei. Il risultato è la creazione di un circolo vizioso in cui coloro che nascono in condizioni di vulnerabilità socioeconomica hanno maggiori probabilità di abbandonare la scuola, fatto che li rende più a rischio di disoccupazione e povertà”.

Bambini e bambine hanno uno sguardo sulla realtà, la leggono, la interpretano, traggono le loro conclusioni con gli strumenti che hanno e con la visione che li ha formati: e nelle periferie pensano che l’Italia non sia un Paese che si occupa del loro futuro (20%); affermano che gli ambiti che dovrebbero essere migliorati sono l’educazione, la scuola e le condizioni economiche delle famiglie; chiedono che vengano create più opportunità di svago e luoghi per fare sport e socializzare. Manifestano la volontà e il desiderio di sganciarsi dalla condizione socioeconomica di partenza.

Il rischio di trasmissione intergenerazionale della povertà

Il concetto di periferia è una sorta di costruzione sociale che descrive una condizione di marginalità, non sempre legata allo spazio fisico, ma sicuramente un luogo del degrado da cui è difficile sganciarsi. L’etichetta “periferia” crea un giudizio negativo che contrappone le èlites che governano la città alla rappresentazione di ciò che è escluso da esse.

Ma come per il Sud, si crea negli abitanti delle periferie un’autorappresentazione fuorviante e dolorosa, poichè di fatto essi “non sanno e non possono parlare da sé e per sé, perché non si riconoscono come un soggetto autonomo dotato di parola, anzi chi vive nei quartieri della marginalità urbana avanzata è più facilmente disposto ad accettare il giudizio (negativo) di chi vive altrove che a esprimere una visione propria”, scrive Agostino Petrillo, sociologo urbano del Politecnico di Milano (La periferia nuova. Disuguaglianza, spazi, città, FrancoAngeli, 2018).

La periferia diviene così un micromondo impermeabile in cui è strutturale la lontananza dalle istituzioni e la disuguaglianza sociale. Una disuguaglianza (dal centro) non solo economica, di reddito e condizioni abitative, “ma anche e soprattutto disuguaglianza di chances, di possibilità di riuscita scolastica e lavorativa, di emancipazione e mobilità sociale e spaziale”. Chi nasce in una periferia ha meno possibilità di trovare lavoro e accoglienza nella grande città, spesso rimane invischiato e bloccato nelle (im)possibilità determinate dal luogo in cui cresce.

“Il crescere della disuguaglianza sociale va di pari passo con la crescita delle disparità spaziali, che vengono ulteriormente accentuate da processi quali il rinnovamento urbano, la gentrification e le strategie del mercato dell’abitazione. Le conseguenze interne di questi fenomeni sono state in molti casi amplificate da politiche ambigue, che hanno guardato agli interessi della grande proprietà, alla tutela degli immobiliaristi”, scrive ancora Petrillo. Che intravede, però, un moto di cambiamento.

“Abitare in via Padova”, Milano

Per contrastare la deriva politica degli ultimi decenni, occorre prendere coscienza della propria voce e così la non rinuncia a essere soggetto politico diventa una forma di resistenza. Ecco allora che sono preziose le associazioni, i collettivi, i luoghi di incontro e scambio che effettivamente esistono e resistono negli spazi di periferia. Se è vero che tra i cittadini e le cittadine è diffusa l’idea di non avere voce o potere decisionale, né alcun tipo di potere, diventano preziosissime le strategie di riappropriazione dello spazio, come i comitati, gli sportelli gratuiti, le iniziative di buon vicinato come il portierato di quartiere e ancora di più le assemblee pubbliche di discussione sui temi specifici del territorio.

“Periferia allora non unicamente come luogo della esclusione, ma anche come luogo della resistenza, in cui vi è un potenziale creativo. Un potenziale che cerca di sottrarsi ai discorsi e alle opinioni che sulla periferia si intessono” scrive Petrillo. Certo, è lecito chiedersi se affidare alla periferia stessa la sua salvezza e protezione non sia una retorica vana. Di fatto è il sintomo di un fallimento delle istituzioni che si ostinano a trasformare le grandi città in parchi riservati ai turisti, sfaldando ciò che invece potrebbe renderle davvero forti e rigogliose: un tessuto cittadino composto da uomini, donne, bambini e bambine sani, istruiti e pronti a costruire e realizzare possibilità.

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