Le donne islandesi questa settimana hanno scioperato per la parità salariale e contro la violenza di genere. La protesta è stata organizzata da circa quaranta organizzazioni, con il sostengo della stessa prima ministra Katrín Jakobsdóttir. “Questa la chiamate uguaglianza?” è lo slogan con cui le islandesi hanno rivendicato i loro diritti, in un Paese che, stando al report annuale del World Economic Forum (Wef), si trova al primo posto della classifica che misura la parità di genere nel mondo con un indice del 91,2 per cento. Una posizione che occupa da 14 anni consecutivi, tanto che l’Islanda si è guadagnata il titolo di “paradiso della parità di genere”.
“Ma un paradiso dell’uguaglianza non dovrebbe avere un divario salariale del 21% e un 40% di donne che subiscono violenza sessuale o di genere nel corso della loro vita”, ha detto al New York Times Freyja Steingrímsdóttir, una delle organizzatrici dello sciopero.
“Chi si prenderà cura dei miei figli?”, si legge tra le Faq del sito dedicato allo sciopero. Perché, anche quando si lotta per la parità, anzi soprattutto quando si lotta per la parità, le incombenze dei lavori di cura non possono essere rinviate, e paradossalmente risulta più facile annunciare uno sciopero sul posto di lavoro che in famiglia.
Le donne ancora incatenate dal lavoro domestico
Oggi abbiamo la consapevolezza che la lotta per l’uguaglianza si svolge almeno su due fronti. Nella vita pubblica, anzitutto, dove la parità salariale e il gap di genere stanno diventando temi sempre meno ignorabili, e la dimostrazione dell’importanza che hanno per il futuro sta nell’assegnazione del Nobel per l’economia a Claudia Goldin, per aver “fornito il primo resoconto completo su quanto guadagnano le donne e sulla loro partecipazione al mercato del lavoro nel corso dei secoli”.
“Adesso è chiaro che l’economia si occupa delle persone, non dei soldi”, ha commentato la professoressa Luisa Rosti su Alley Oop. Le acque si muovono, dunque, o perlomeno si increspano.
Ma dall’altra parte, c’è il lavoro domestico e di cura, che ancora incatena le donne e ne impedisce la libera realizzazione, in modi che si incrociano e si intersecano con le politiche aziendali e salariali molto più di quanto siamo disposti ad ammettere. Un tempo le donne non potevano lavorare per questioni di convenzioni sociali. Oggi sono le più esposte all’inoccupazione per questioni economiche: se la donna guadagna meno e ha meno possibilità di carriera, sarà quella che in caso di necessità rinuncerà al lavoro per occuparsi dei figli. Da sempre, sono dunque le donne le più vessate dai dilemmi famiglia/vita pubblica, figli/lavoro, e così via.
Forse per uscire dall’impasse occorre avere il coraggio di considerare cosa davvero rappresentino i lavori domestici e di cura nella vita di una donna.
Rachel Cusk: la maternità è una sfida al concetto di eguaglianza
“La cura dei bambini come lavoro pagato a tempo pieno era ciò che un tempo, con l’allegra sconsideratezza di chi non ha figli, credevo essere la soluzione all’enigma del lavoro e della maternità”. A scriverlo è Rachel Cusk, una tra le più importanti scrittrici inglesi contemporanee, in un libro forse meno conosciuto tra i suoi, un documento in cui racconta la sua reale esperienza di neomamma, con riflessioni spietatamente razionali e sincere.
Cosa succede oggi a una donna quando diventa madre? Perché diventare madri, quando tutto intorno a noi sembra suggerire di non farlo? Prova a rispondere a queste domande, Cusk, passando dalla sua esperienza diretta attraverso la letteratura e la manualistica sulla gravidanza, osservando come il tema del dare alla luce sia continuamente disinnescato tanto dal linguaggio asettico delle sale ospedaliere quanto dalla cultura popolare, che immerge la maternità in un mondo rassicurante dove l’amore materno sembra essere tutto ciò che serve per affrontare qualunque dramma.
E però “Puoi dire addio al sonno” è il titolo del libro, pubblicato da Mondadori con la traduzione di Micol Toffanin nel 2009, ripubblicato nel 2021 da Einaudi con il titolo originale “Il lavoro di una vita”: titoli che richiamano al concreto impatto del diventare madri sulla vita di ogni donna. “Non capivo che le esperienze della gravidanza e del parto sono delle sfide al concetto di eguaglianza tra i sessi. Il parto non distingue solo gli uomini dalle donne: distingue le donne tra loro, cosicché, in seguito a quell’esperienza, l’idea che una donna ha dell’esistenza muta profondamente”, scrive Cusk. Il tema centrale del libro è dunque la donna, non la madre, ma l’individuo che viene prima di essa, che rimane sotto, che si fa carico del ruolo materno accettando di esserne definita. Spesso, a partire dai contesti ospedalieri, le donne non vengono più chiamate per nome, ma definite come “la mamma”.
Si sbaglierebbe a classificare il libro come un racconto sulla maternità, è in realtà un libro che tenta disperatamente di rispondere alla domanda che si fa ogni donna una volta diventata madre: io dove sono finita? “Dovrò considerarmi fortunata se riuscirò a trovare il tempo per ripercorrere la lunga strada che conduce al mio io di un tempo, a quelle rovine vetuste, per gettargli sopra una mano di vernice in tutta fretta prima che sopraggiunga l’inverno della mezza età”, scrive Cusk, mentre osserva il corpo “puro e perlaceo” della figlia neonata.
È proprio nei primi mesi di vita della bambina che l’autrice ha lavorato a questo libro, sottolineando come il sentirsi dire che un lavoro come il suo sia “l’ideale” quando si hanno figli sia un’ingiusta valutazione della realtà dei fatti, poiché chi lavora da casa subisce di fatto una distribuzione sproporzionata delle incombenze domestiche. “La maternità mi sembra sempre più un lavoro che non una condizione, un lavoro part-time, che ha un orario al di fuori del quale sono libera”. Libera di lavorare, aggiungerei io.
Come una scrittrice affrontò il problema dei lavori domestici nel 1910
In Italia, le donne svolgono 5 ore e 5 minuti di lavoro non retribuito di assistenza e cura al giorno mentre gli uomini un’ora e 48 minuti. Il contributo degli uomini al lavoro di cura e assistenza alla persona non retribuito è aumentato negli ultimi 20 anni a una velocità annuale di 1,2 minuti al giorno. Le donne, invece, hanno ridotto di 2,1 minuti al giorno ogni anno. Di questo passo, l’uguaglianza di genere nel lavoro non retribuito di assistenza e cura potrà realizzarsi forse nel 2066.
Era il 1898 quando Charlotte Perkins Gilman pubblicò “Women and Economics”, un trattato in cui si sosteneva, tra le altre cose, che le donne erano soggiogate dagli uomini per via delle faccende domestiche, e dove la teorizzazione di uno spazio abitativo rivoluzionario passava per l’eliminazione della cucina nelle singole case, a favore di un modello comune, aperto a uomini e donne, comprendente stanze, appartamenti e case.
È stato poi attraverso una serie di racconti che l’autrice ha dipinto con precisione questa tensione alla libertà. Vive in una pensione la giovane e affascinante vedova protagonista del racconto “La governante”, assieme al figlio e a una cameriera. Un uomo pare farle la corte, ma lei gli espone un dettagliato elenco di ragioni per cui non intende risposarsi, tra cui l’avversione alle incombenze domestiche. Il fatto è che in questo, come in altri racconti, sono proprio gli uomini a cambiare le carte in tavola. Con il loro intervento, in modi fantasiosi e alquanto visionari, sollevano le donne da tali incombenze, dimostrando quanto in meglio possa cambiare la vita di una donna, quanto possa fiorire il talento e la vita di una donna, se al suo fianco c’è qualcuno che non solo comprende perfettamente in cosa consiste quello che oggi chiamiamo “carico di lavoro”, ma in più è in grado di farsene portatore.
No, Perkins Gilman non è considerata un’autrice di fantascienza.
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Titolo: “Il lavoro di una vita”
Autrice: Rachel Cusk
Traduttrice: Micol Toffanin
Editore: Einaudi, 2021
Prezzo: 12 euro
Titolo: “La governante e altri problemi domestici”
Autrice: Charlotte Perkins Gilman
Traduttrice: Ilaria Police
Editore: astoria, 2010
Prezzo: 9 euro
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