Lo hanno chiamato il #MeToo della pubblicità, sui social è stato uno dei temi più presenti l’estate scorsa. Una storia di molestie sessuali in una grande agenzia pubblicitaria, risalente a molti anni fa, denunciata per anni, ha fatto clamore quando è stata rilanciata da un noto profilo Facebook che, con il nome di “Monica Rossi”, si occupa di editoria e pubblica interviste a scrittrici, scrittori e non solo. L’intervista di Monica Rossi a Massimo Guastini del 9 giugno scorso ha una vasta eco e scoperchia così un vaso di Pandora già noto da tempo nel mondo delle agenzie pubblicitarie e apre la strada a moltissime altre testimonianze, emerse in questi mesi. Massimo Guastini lavora in pubblicità da oltre 40 anni, per 5 è stato anche presidente dell’Art Directors Club Italiano. Da anni, sui suoi profili social e non solo, parla del sessismo e delle molestie nel mondo delle agenzie pubblicitarie.
Lo scandalo delle molestie nelle agenzie pubblicitarie esploso questa estate dopo la tua intervista a Monica Rossi ha alzato un polverone, soprattutto sui social. Una volta che la polvere si è posata a terra cosa è rimasto?
C’è stata una scintilla, sicuramente. Ma non basterà ad avviare un “MeToo” italiano. Qualche giorno dopo l’intervista sono apparse in Rete delle stories Instagram. Tutte segnalavano, con un linguaggio esplicito e grande chiarezza, la gravità delle molestie, violenze e abusi ma senza fare i nomi dei molestatori. È intervenuta anche la carta stampata, con alcuni articoli. Troppo poco. Lavoro nella comunicazione da 40 anni. E so che in un Paese come l’Italia nessuna battaglia morale, oltre che etica, può assumere rilievo se non amplificata da canali televisivi a diffusione nazionale. Così rendiamo facile una contro narrazione, già in atto, volta essenzialmente a relativizzare e minimizzare. Relativizzare e minimizzare significa raccontare che queste cose avvengono dappertutto; che quello delle molestie e violenze sessuali è un problema generazionale in via di superamento, perché riguarda solo i manager boomer; che chi segnala molestie e abusi sono persone livorose perché non in grado di mantenere le alte performance richieste da questo settore molto competitivo. La parte “washing” della contro narrazione ostenterà manifesti etici nonché convenzioni con autorevoli associazioni e fondazioni che si occupano di questi temi. Potrebbero addirittura fioccare i bollini di certificazione. E tutto resterà come prima, se la volontà non è quella di occuparsi concretamente del problema ma di tutelare essenzialmente la reputazione del settore. Perché in questo ambito la reputazione significa denaro.
Secondo te il mondo della pubblicità ha di per sé delle caratteristiche che lo rendono terreno fertile per l’espressione di una cultura maschilista e sessista, da cui nascono poi le molestie sessuali?
Tra il 2014 e il 2015 venni invitato due volte alla Camera, dalla allora Presidente Laura Boldrini. Presentai i dati della ricerca come la pubblicità racconta le donne e gli uomini in Italia. La presentazione è ancora online e potete leggerla nei dettagli, metodologia compresa. Vi anticipo la parte fondamentale: Quando la pubblicità rappresenta la donna, ne racconta soprattutto la fisicità in chiave seduttiva. L’81,27% delle donne narrate sono infatti: “modelle”, “grechine”, “sessualmente disponibili”, “manichini”, “ragazze interrotte” (rappresentate da “pezzi anatomici”) e “preorgasmiche”. Gli investimenti economici che hanno sostenuto queste tipologie femminili, ammontavano allora a oltre 65 milioni di euro mensili. Più di ottocento milioni di euro all’anno. E gli uomini? Il 66% degli investimenti pubblicitari destinati alla rappresentazione dell’uomo, lo raccontano come “professionista”, un essere umano che si realizza attraverso le sue competenze e la sua determinazione. Non l’avvenenza. Non la seduzione. Non il corpo. Quindi, mi sento di risponderti che sicuramente il mondo della pubblicità esprime una cultura maschilista e sessista. Se poi consideri che almeno due terzi del personale sono donne, diviene inevitabile un’ulteriore riflessione: il potere è nelle mani degli uomini e, forse, ancora troppe donne sono talmente condizionate da essere ormai assuefatte a maschilismo e sessismo, tanto da non riconoscerli più come tali. Oppure, non hanno il ruolo per opporsi.
Pensi che sia cambiato qualcosa, in meglio o in peggio, negli ultimi anni?
Quando ho iniziato a lavorare vivevo, come tutti, immerso in una cultura patriarcale, ma c’erano anche anticorpi culturali molto forti. La pubblicità era allora (come ora) Milano centrica. Ma molte giovani donne e molti giovani uomini venivano dalle esperienze politiche del decennio precedente. Le manifestazioni per l’aborto e i diritti delle donne. E coltivavamo il sogno (utopia?) di contribuire al cambiamento anche dall’interno di uno strumento mediatico dalle grandi potenzialità. Quindi, per capirci: “la chat degli 80” (una chat di un’agenzia pubblicitaria milanese di cui facevano parte un’ottantina di uomini anche con ruoli di responsabilità che catalogavano e commentavano in maniera esplicita, volgare, offensiva e violenta il corpo delle stagiste e delle donne dell’agenzia, ndr) non avrebbe preso corpo. Perché almeno venti uomini si sarebbero ribellate, opposti, avrebbero detto “ma cosa state facendo?”. Qui, nei nostri tempi attuali, il problema si è capovolto. Non è più disdicevole fare parte di una simile congrega, bensì non appartenervi. E non minimizziamo. È emersa solo quella chat. Ma io ho ricevuto segnalazioni di almeno altri due casi analoghi. Chat simili per partecipazione e “livello” dei contenuti. Per non parlare delle decine di lettere e messaggi che ho ricevuto in queste settimane. Credibili. Donne che si sono firmate nel fare i nomi delle agenzie in cui lavorano e dei colleghi o capi che le hanno molestate; o che sono stati violenti con loro, umiliandole pubblicamente. Quindi, per quanto riguarda la mia esperienza diretta mi sento di dire che la situazione stia peggiorando. Che non è limitata ai boomer, ormai percentualmente poco rappresentati nelle strutture di comunicazione. È un problema che chiama in causa, per nome e cognome, soprattutto uomini tra i 32 e i 45 anni. E permane.
Qual è la responsabilità degli uomini e quale può (e deve) essere il loro ruolo nella battaglia contro queste situazioni di molestie e soprusi sulle donne negli ambienti di lavoro come quello pubblicitario?
Partiamo dal presupposto che molestie sessuali e violenze vengono purtroppo commesse principalmente dagli uomini. Direi quindi che “Servono altri Uomini”. Capaci di percepire con chiarezza il ruolo fondamentale che possono avere nell’accelerare il cambiamento. Con piccoli e grandi gesti, a seconda del loro ruolo e quindi del potere e dei privilegi che hanno. Non facciamo battute sessiste. Abituiamoci. E se le fa un collega facciamoglielo notare. Se le fa il capo non ridiamo. E poi in privato, parliamo con la donna che ha subito la battuta, la pacca sul sedere, o l’aggressività e le urla isteriche (ci sono anche queste) chiediamole come sta. Se possiamo fare qualcosa per aiutarla. Se prova a minimizzare non crediamole. Troppe donne si sono abituate a subire. A ritenere “normale” tutto questo. Ascoltiamole. E non lasciamole sole, con discrezione teniamole nel nostro radar. Evitiamo il ripetersi di nuove tragedie. Anche se siamo dei capi, impariamo ad alzare le chiappe dalla sedia per portare, noi uomini, i caffè in sala riunioni. Questo non ci renderà meno autorevoli quando presenteremo il nostro lavoro. Ma se lo facciamo portare, come è consuetudine, alle colleghe, ne continueremo a minare la credibilità. Specie se non le facciamo parlare, le interrompiamo in continuazione, non le chiamiamo Dottoressa XX ma per nome di battesimo, laddove la riunione è formale e gli uomini sono “Dottore” anche quando non hanno finito l’istituto tecnico. Un uomo non può denunciare una violenza o un abuso alle autorità al posto di una donna. Ma può affrontare, con civiltà, il responsabile, e indurlo a riflettere. A cambiare. O può rivolgersi alle HR. E dovrebbe accompagnare la collega in un centro di ascolto o in un centro antiviolenza. Aspettare che esca e riaccompagnarla a casa. Almeno la prima volta. Non è cavalleria. Si chiama solidarietà umana. Non chiediamo più alle donne “perché non denunci all’autorità?” Se non lo sapete ve lo posso dire io: per il martirio a cui andrebbero inevitabilmente incontro. Vale la pena ricordare che l’Italia è tra i 5 paesi europei con il più alto numero di omicidi intenzionali contro le donne (dati di Unodc-United Nations Office on drugs and crime, elaborati da LaPresse). E non commettiamo più l’errore di sottovalutare un fatto importante: c’è una correlazione sociale tra la violenza (verbale e non solo, molestie e abusi) contro le donne, sul luogo di lavoro, e la nostra posizione nella classifica dei Paesi europei con più femminicidi.
Cosa servirebbe per un cambiamento radicale nelle dinamiche di potere nel mondo della pubblicità (e non solo), quali sono le strade che non sono ancora state battute?
Per definire il problema parto da quello che ho imparato in questi anni nei quali ho ascoltato molte donne vittime di violenze, molestie e abusi. Non denunciano. Perché non sarebbero credute, o comunque sarebbe la loro parola contro quella dell’altro (ed è vero, glielo spiegano sia i carabinieri, sia gli avvocati); perché hanno paura di perdere il lavoro e di precludersi qualunque possibilità di carriera in un ambiente dove il potere è essenzialmente maschile. Alcune minimizzano. A volte per giustificare inconsciamente la loro mancata reazione, altre volte per un condizionamento culturale, riducono la molestia o violenza subita, definendola “un corteggiamento rozzo”. O si colpevolizzano (“forse l’ho provocato io”). Ho anche imparato che questo tipo di uomini tende a ripetersi. È il loro punto debole, se cambiamo qualche regola.
Hai pensato a delle cose pratiche che secondo te potrebbero essere utili?
Sì, a partire dalla prescrizione: deve passare da 12 a 120 mesi. Così è più probabile che almeno due ragazze (meglio tre) maturino in questo lasso di tempo la consapevolezza dell’esperienza traumatica e il coraggio di divenire parte attiva contro chi le ha ferite. E poi servono luoghi sicuri, tutelati, dove depositare la propria segnalazione con nome e cognome del molestatore. Non è difficile immaginare, oggi, un centro nazionale di raccolta online delle segnalazioni nel quale, non appena il nome di un molestatore ricorre n volte (dove n è il numero legalmente utile affinché una denuncia collettiva divenga efficace), le n vittime vengono avvisate della possibilità di fare una denuncia congiunta. Con assistenza legale gratuita. Ultima, ma in realtà prima necessità, in ordine cronologico, la possibilità di essere ascoltate. Anche solo per uno “sfogo emotivo”, per levarsi il senso di lerciume di dosso. Per non sentirsi sole e nemmeno giudicate. Questo è fondamentale. Quasi tutte le donne che ho ascoltato non hanno parlato per lungo tempo della loro esperienza più o meno traumatica. Nemmeno in famiglia o con il partner. Un orecchio esterno può in questi casi essere più indicato. Proprio perché esterno.
Leggo che il cambiamento sarà culturale, che ci vuole pazienza e avverrà entro il 2154 (stima Global Gender Gap Report 2022) Io credo che il futuro non si costruisca delegando. È nelle mani di ciascuno di noi, già ora. Facciamo tutto quello che
possiamo, a partire da oggi.
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Se stai subendo stalking, violenza verbale o psicologica, violenza fisica puoi chiamare per avere aiuto o anche solo per chiedere un consiglio il 1522 (il numero è gratuito anche dai cellulari). Se preferisci, puoi chattare con le operatrici direttamente da qui.
Puoi rivolgerti a uno dei numerosi centri antiviolenza sul territorio nazionale, dove potrai trovare ascolto, consigli pratici e una rete di supporto concreto. La lista dei centri aderenti alla rete D.i.Re è qui.
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