Sentenze contro le donne, quando la violenza diventa “uno scherzo”

Due donne denunciano violenza, le giudici credono al loro racconto che ritengono pienamente attendibile ma l’imputato viene assolto perché il fatto non costituisce reato. Ovvero: la violenza, anche se è accertata, non è violenza. In un caso perché si è trattato solo di uno “scherzo”. Nell’altro perché la vittima ha impiegato 30 secondi per reagire. Sentenze che confermano come in Italia per combattere la violenza contro le donne non servano leggi nuove, ma l’applicazione di quelle esistenti. In tutti e due i casi, si andrà in appello.

I fatti

Il primo riguarda l’assoluzione a Roma del collaboratore scolastico che il 12 aprile 2022 all’istituto Cine rtv Roberto Rossellini di Roma ha palpeggiato una studentessa di 17 anni mettendole le mani dentro i pantaloni, toccandole i glutei, afferrandola per gli slip e sollevandola di 2 centimetri. Fatti messi nero su bianco nella sentenza dei giudici datata 6 luglio della quinta sezione penale del tribunale di Roma (Maria Bonaventura, Elena Scozzarella, Petra Giunti).

Il secondo episodio risale al 26 gennaio, quando è stato assolto l’ex sindacalista Raffaele Meola, che il 12 marzo 2021 ha baciato sul collo, messo le mani sul seno e poi negli slip a una hostess, tirandole il perizoma. Anche qui i fatti sono stati riportati nella sentenza, ma come nel primo caso non costituiscono reato.

Il racconto credibile

Quando in udienza ho sentito pronunciare la frase: assolto perché il fatto non costituisce reato, sono rimasto sbalordito. Inizialmente ho creduto – pur inspiegabilmente – che il tribunale non avesse dato pieno credito alla mia assistita. Leggendo le motivazioni ho capito invece che secondo i giudici mancava l’elemento soggettivo: il gesto dell’imputato non sarebbe stato frutto di un intento libidinoso ma scherzoso e non avrebbe quindi voluto violare la libertà sessuale della ragazza”, ci spiega l’avvocato Andrea Buitoni, che difende la studentessa dell’istituto Rossellini di Roma.

La sentenza nelle prime pagine ricostruisce esattamente i fatti, le giudici ritengono le dichiarazioni della giovane, “pienamente credibili, dettagliate, prive di contraddizioni, logiche, coerenti, nonché prive di alcun intento calunnioso nei confronti dell’imputato”. Scrivono che la condotta posta in essere dall’imputato, come descritta dalla persona offesa, integra sicuramente l’elemento oggettivo della fattispecie incriminatrice di cui all’articolo 609 bis del codice penale, poiché egli ha “repentinamente toccato i glutei della parte lesa, zona erogena”. Ma poi vi è un dietrofront.

L’atto scherzoso

Secondo il tribunale, “le modalità dell’azione lasciano ampi margini di dubbio sulla volontarietà nella violazione della libertà sessuale della ragazza, considerato la natura di sfioramento dei glutei, per un tempo sicuramente minimo, visto che l’intera azione si concentra in una manciata di secondi, senza alcun indugio nel toccamento”.

Inoltre – continua la sentenza – appare verosimile che lo sfioramento dei glutei sia stato causato da una manovra maldestra dell’imputato. “La repentinità dell’azione, senza alcuna insistenza nel toccamento, da considerarsi quasi uno sfioramento”, il luogo e il tempo della condotta – scrivono i giudici –  “non consentono di configurare l’intento libidinoso o di concupiscenza generalmente richiesto dalla norma penale. Appare, pertanto, convincente la tesi difensiva dell’atto scherzoso”.

Così il palpeggiamento diventa uno sfioramento, il racconto credibile una manciata di secondi, la violenza un atto scherzoso.

La repentinità esclude il consenso, quindi è violenza sessuale.

Da quando è stata emanata la legge sulla violenza sessuale quale reato contro la persona e non più contro la morale (1996), l’atto repentino che non dà la possibilità di esprimere un consenso è considerato violenza sessuale. Abbiamo avuto molte sentenze di condanne per la “palpeggiata sugli autobus” proprio perché, essendo repentina e improvvisa, la donna non può acconsentire in alcun modo.  L’inviolabilità del corpo femminile è un diritto“,  sottolinea Teresa Manente, avvocata di Differenza donna che dopo l’assoluzione dell’ex sindacalista  a Busto Arsizio ha fatto appello, insieme alla stessa procura.

Nella sentenza di assoluzione si legge che “toccamenti e baci, iniziati da un mero massaggio sulle spalle, sono poi stati protratti per circa trenta secondi “. Il tribunale ha ritenuto non sussistente il dolo in capo all’imputato, affermando che non fosse nelle condizioni di percepire il dissenso, anche se non vi è alcun dubbio “sulla valenza sessuale degli atti compiuti”.  Secondo le giudici, quindi, la donna avrebbe dovuto  manifestare il dissenso  prima di trenta secondi.

La giurisprudenza

La Suprema Corte,  in  merito all’applicazione dell’articolo 609 bis del codice penale (violenza sessuale),  stabilisce che “in tema di violenza sessuale, l’elemento oggettivo consiste sia nella violenza fisica in senso stretto sia nella intimidazione psicologica che sia in grado di provocare la coazione della vittima a subire gli atti sessuali, sia anche nel compimento di atti di libidine subdoli e repentini, compiuti senza accertarsi del consenso della persona destinataria, o comunque prevenendone la manifestazione di dissenso” ( Sez. 3, Sentenza n. 6945 del 27/01/2004).

“Ai fini della configurabilità del reato, non è necessaria una violenza che ponga il soggetto passivo e nell’impossibilità di opporre una resistenza, essendo sufficiente che l’azione si compia in modo insidiosamente rapido, tanto da superare la volontà contraria del soggetto passivo.” ( Sez. 3, Sentenza n. 6340 del 01/02/2006).

E’ dunque il consenso della donna – non il dissenso –  a dover essere provato dall’ imputato e deve essere  un consenso chiaro ed inequivoco, sia prima sia durante l’atto sessuale”, spiega Manente.

Le leggi ci sono ma non vengono applicate

L’Italia ha un problema di implementazione delle norme, di applicazione nei tribunali della logica stabilita dalle leggi a sostegno delle donne: è un problema culturale dei giudici”, commenta Elisa Ercoli, presidente di Differenza donna. “Tutte le sentenze, infatti, anche quelle a favore delle vittime di violenza, vertono sulla credibilità della donna. Ma nella giustizia penale quello che bisogna fare è valutare se il reato è stato compiuto”, continua Ercoli.

E nei casi di Roma e Busto Arsizio il reato è compiuto in modo molto chiaro. “Tutto dipende dalla non comprensione della gravità del reato e dalla presenza di pregiudizi sessisti e stereotipi. Vi è una banalizzazione del reato che diventa addirittura un atto scherzoso. Minimizzare la violenza e non riconoscerla impedisce la piena applicazione delle norme. Per questo l’Italia è stata più volte condannata dalla Corte europea dei diritti umani (Cedu)  e dal Cedaw, il comitato delle nazioni unite”, conclude la presidente di Differenza Donna.

L’Italia è un Paese che nel 2023 è scivolato dal 63esimo al 79esimo posto su 146 Paesi nel report  Global Gender Gap del World Economic Forum. E’ un paese in cui il 39,3% della popolazione ritiene che una donna sia in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole e il 24% pensa che le donne possano provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire (rapporto Istat 2018). L’Italia è un paese che nella tutela dei diritti delle donne e delle vittime di violenza è ancora decisamente indietro.

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