Università, la scelta del corso di studi è ancora condizionata dal genere?

Le giovani donne che hanno intenzione di iscriversi all’università possono scegliere tra un centinaio di classi di laurea, ma le loro scelte si concentrano in un numero relativamente limitato di discipline invece di distribuirsi tra le varie alternative come quelle dei loro coetanei di genere maschile.

Ad esempio, le principali[1] classi di laurea magistrale dove la presenza femminile è dominante sono: Scienze pedagogiche (2.253 laureati, 94% donne); Servizio sociale e politiche sociali (1.277 laureati, 92% donne); Lingue moderne per la comunicazione e la cooperazione internazionale (2.035 laureati, 88% donne), Lingue e letterature moderne europee e americane (2.368 laureati, 86% donne); Storia dell’arte (1.333 laureati, 84% donne); Psicologia (5.875 laureati, 82% donne); Filologia moderna (2.680 laureati, 77% donne). Per l’insieme di tutti i laureati, la presenza femminile è pari al 56%.

La presenza maschile invece è meno concentrata e meglio distribuita tra tutte le classi, ma risulta comunque dominante in almeno tre corsi di studi: Ingegneria meccanica (3.343 laureati, 87% uomini); Ingegneria informatica (2.068 laureati, 86% uomini); Informatica (1.141 laureati, 84% uomini).

Cosa guida la scelta della disciplina in cui laurearsi?

È da notare che le scelte delle studentesse sembrano guidate da criteri diversi da quelle dei loro colleghi. Per l’insieme delle classi[2], la presenza maschile va di pari passo con le prospettive occupazionali e retributive, mentre quella femminile sembra muoversi nella direzione opposta: tanto minori sono la retribuzione e la probabilità di occupazione, tanto maggiore è la quota di donne sul totale dei laureati di quel percorso formativo.

Tasso di presenza maschile e femminile per classe di laurea e retribuzione media mensile netta a un anno dal conseguimento del titolo per genere. Valori percentuali.

Ns. el. su dati Almalaurea 2022

La preferenza femminile per certe classi di laurea non sembra dunque derivare dalle prospettive occupazionali e retributive, e non sembra neppure determinata dalla difficoltà del percorso formativo, dato che il voto di laurea non risulta correlato con la maggiore o minor presenza di studentesse per classe disciplinare; cosa determina dunque la marcata differenza di genere nella scelta del corso di studi?

Quando comincia la segregazione occupazionale?

La questione è rilevante perché la differenziazione dei percorsi formativi apre alla componente maschile una gamma di opportunità professionali che restano invece precluse alla componente femminile, troppo convergente solo su una parte ridotta del campo di scelta. Di conseguenza, quand’anche la concentrazione femminile in alcuni percorsi formativi fosse la manifestazione di preferenze personali genuine per l’una o per l’altra disciplina, resta il fatto che in molti casi la specificità del titolo di studio vincola la scelta della successiva occupazione (per fare il medico devo studiare medicina).

Le scelte formative delle studentesse sembrano dunque riconducibili non tanto alle preferenze per il sapere disciplinare o alla futura retribuzione, quanto piuttosto alle caratteristiche specifiche delle attività professionali per cui si preparano, e alle quali i percorsi formativi più frequentati dalle studentesse facilitano l’accesso.

Voglio fare la prof

Prendiamo in esame, a titolo di esempio, le professioni più diffuse tra le neolaureate delle sette classi di laurea in cui la presenza femminile è dominante: con poche eccezioni, è ancora l’insegnamento la strada maestra per l’occupazione delle neolaureate in queste classi, e “insegnante” è la professione più diffusa[3] tra i laureati in Scienze pedagogiche, in Storia dell’arte, in Filologia moderna, in Lingue e letterature moderne europee e americane e in Lingue moderne per la comunicazione e la cooperazione internazionale. Per chi si laurea in Servizio sociale e politiche sociali la professione di insegnante compare solo al terzo posto, e non compare affatto tra le prime posizioni per i laureati in Psicologia, unico caso tra le sette classi qui considerate.

Quanto guadagnano, in media, i docenti neolaureati?

La retribuzione di un neolaureato che sceglie la professione di insegnante è solitamente minore della retribuzione media dei laureati della sua stessa classe (cioè dell’insieme degli occupati in tutte le professioni svolte dai laureati di quella classe) a 5 anni dal conseguimento del titolo. I dati Almalaurea ci dicono, ad esempio, che i professori di discipline umanistiche nella scuola secondaria inferiore (2.303 laureati occupati nella professione, 81% donne) hanno una retribuzione media mensile netta di 1.352 euro. La quota più consistente di questi docenti possiede una laurea in Filologia moderna, e lo stipendio di professore risulta mediamente inferiore alla retribuzione dei laureati in questa disciplina (1.417 euro).

Similmente, i professori di scienze letterarie, artistiche, storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche nella scuola secondaria superiore (3.323 laureati occupati nella professione, 77% donne) hanno una retribuzione media di 1.340 euro, sensibilmente più bassa di quella dei laureati in Lingue e letterature moderne europee e americane (1.418).

I professori di scienze giuridiche, economiche e sociali nella scuola secondaria superiore (462 laureati occupati nella professione, 70% donne), hanno una retribuzione di 1.328 euro, e sono laureati in Giurisprudenza nel 38% dei casi e in Scienze economico-aziendali nel 27% dei casi; questo importo è nettamente minore sia rispetto alla retribuzione di un laureato in Giurisprudenza (1.635 euro), sia rispetto alla retribuzione di un laureato in Scienze economico-aziendali (1.779 euro).

Non fanno eccezione a questa regola i professori di scienze matematiche, fisiche e chimiche nella scuola secondaria superiore (1.477 laureati occupati nella professione, 65% donne); la loro retribuzione è di 1.359 euro, anche in questo caso nettamente inferiore a quella dei laureati in Matematica 5 anni dopo il conseguimento del titolo (1.779 euro).

Questa differenza di retribuzione tra la professione di insegnante e la media delle professioni esercitate dai neolaureati con lo stesso titolo di studio rappresenta il costo-opportunità della decisione di dedicarsi all’insegnamento, e poiché grava soprattutto sulle donne contribuisce non poco alla formazione del gender pay gap.

Prof, ma dov’è la notizia? Lo sappiamo da anni e anni che l’insegnante è la professione più adatta per una donna!

È questa la notizia … nel corso dell’ultimo decennio molte cose sono cambiate in modo convergente alla riduzione della disuguaglianza di genere nell’occupazione[4], ma nell’insegnamento sembra che non cambi mai niente (Figura 2) …

Quota percentuale di donne sul totale del personale docente per tipo di scuola, in Italia, al 2005 e al 2020.

Fonte: OECD 2022

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[1] – Sono qui menzionati solo corsi di laurea magistrale biennale con più di mille laureati.

[2] – Sono considerate solo le classi con almeno 100 laureati.

[3] Fonte Almalaurea Professioni. Elaborazioni realizzate sui laureati degli anni solari 2022 (caratteristiche), 2021 e 2017 (condizione occupazionale), 2016, 2015 e 2014 (professione svolta).

[4] Il Gender Equality Index, l’indicatore che misura la distanza di ogni Paese europeo dalla condizione di piena eguaglianza tra donne e uomini (rappresentata da un valore dell’indice pari a 100), segna un miglioramento per l’Italia, dal 2013 al 2022, sia dell’indice generale, che passa da 53,3 a 65,0, sia dell’ambito del lavoro, che passa da 61,3 a 63,2. Aumentano, specificamente, sia il valore della partecipazione (da 64,9 a 68,1) sia quello della segregazione (da 57,8 a 58,7). Anche le variazioni rispetto a 10 anni prima degli indicatori SDGs (Sustainable Development Goals), recentemente calcolati da Istat 2022, mostrano un andamento positivo: si è ridotta l’asimmetria nel lavoro familiare, è aumentato il numero di donne nella rappresentanza politica in Parlamento e a livello locale, è aumentata la presenza femminile negli organi decisionali, ed è aumentato il numero di donne nei consigli d’amministrazione delle società quotate.

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