Cambio vita: da Messina agli States per fare impresa

Una storia tutta italiana, quella che Alessandra Scimone ha raccontato ad Alley Oop. Dai tratti purtroppo molto comuni. È la storia di una donna che dopo aver completato brillantemente il proprio percorso di studi ha dovuto fare i conti con l’impossibilità di conciliare vita e lavoro, almeno nel nostro Paese. E ha dovuto decidere di portare la propria vita altrove.

In piena crisi economica nel 2011, Alessandra lascia l’Italia e con la famiglia decide di emigrare negli Stati Uniti dove da allora prova a vivere la vita che voleva, senza rinunce.
A Pittsford, che dista pochi chilometri da New York, oggi ha un marito, cinque figli e la carriera per la quale aveva conseguito laurea e master. La sua società si chiama ‘Little America LLC’ e offre programmi di scambio culturale, incentrato sull’insegnamento della lingua, oltre a un child care situato proprio tra le mura domestiche.

Quando ha capito che in Italia non avrebbe trovato il lavoro per cui aveva studiato a lungo?
L’ho capito dopo la laurea e il master, a ogni colloquio mi veniva chiesto chi si sarebbe preso cura della bambina (allora avevo già la mia prima figlia), quale fosse la mia disponibilità agli straordinari, alle trasferte, se volevo altri figli. Tutte questioni che a un uomo non avrebbero posto. Come fai a bilanciare famiglia e lavoro, che questa domanda sia ancora rivolta a una donna vuol dire che il gender gap è ancora lì, molto evidente.

L’Italia dall’annuale report “Global Gender Gap Index” sul divario di genere anche nel 2022 resta 63esima. Ma cosa è, concretamente, per una donna il gender gap?
In poche battute è non avere le stesse opportunità. È ciò che diceva la politica canadese Charlotte Whitton quando sosteneva che le donne devono fare le cose due volte meglio degli uomini per essere giudicate brave la metà.

Un divario che ha provato sulla sua pelle, quando le è stato chiaro che il suo Paese le chiedeva di scegliere tra avere figli e realizzarsi nel lavoro?
Frustrazione, più che rabbia o rassegnazione direi frustrazione. Ci sono stati momenti in cui ho pensato che forse davvero il mio destino fosse quello di restare a casa e occuparmi solo della famiglia. All’età di trent’anni avevo già tre figli: sette anni, quattro e uno. La mia passione per la lingua inglese la coltivavo a casa. E poi è venuta la realizzazione, il sogno americano. Se puoi sognarlo puoi farlo, quella mentalità che mi aveva affascinata quando avevo diciotto anni durante il mio primo viaggio negli States mi ha molto segnata.

Quanto ha pesato per lei essere una donna del Sud, nella ricerca dell’affermazione professionale?
In realtà ho lasciato presto il Sud. Ho studiato a Milano e poi da lì a Merate. Il viaggio è insomma iniziato presto. Dunque, non è stato un salto diretto da Messina a New York, ci sono state molte esperienze precedenti.

Con quale stato d’animo si è trasferita?
Con una grande voglia di realizzare i miei sogni, ma anche tanta paura. Non c’era nulla di certo, avevo lasciato l’Italia e lì i miei contatti. Mio marito è stato di grande supporto. È stata sicuramente un’avventura e non è stato facile ma è stato molto gratificante essere riusciti a fare quello che abbiamo fatto.

Le crisi possono essere trasformate in opportunità, è questa la morale della storia che la sua famiglia oggi ci racconta?
Sì, ma solo in parte. Il sogno di venire in America era un sogno nel cassetto già a diciotto anni e posso dire che certamente la crisi ci ha dato la motivazione per correre il rischio. Ma devo essere oneste e riconoscere che la presenza al mio fianco di mio marito è stata l’altro aspetto, un uomo che ha condiviso con me dal primo giorno la responsabilità di essere genitore. Noi due siamo interscambiabili oggi all’interno della famiglia, dal cucire, al cucinare al fare i piatti possiamo farlo e lo facciamo entrambi. Non c’è niente di sbagliato se la donna fa carriera, l’uomo non deve sentirsi sbagliato.

Cosa insegna ai suoi figli?
Che i sogni vanno inseguiti. E loro sono già fuori di casa, vivono altrove, tutte meno i due piccoli.

C’è un prezzo che ha dovuto pagare per realizzarsi pienamente?
Decisamente gli affetti. La morte di mia madre che è arrivata all’improvviso, mentre rientravo in America dopo aver trascorso con lei due settimane di vacanze; la nascita della figlia di mia sorella che non conosco ancora, perché capitata nel periodo della pandemia. La tecnologia ci aiuta certo, ma i sacrifici che ci vengono richiesti sono davvero tanti.

Quali sono i piani per il futuro?
Ampliare il child care in casa, migliorare i programmi estivi per bambini e ragazzi, e per gli adulti che vogliono trasferirsi implementare un servizio che li assista nella redazione del business plan.

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