Si può spegnere il burnout?

Negli ultimi anni – dallo scoppio della pandemia in avanti – si sente quotidianamente parlare di burnout. Le persone affermano di soffrirne, vengono condivisi articoli e dati a supporto e molte aziende si impegnano a contrastarlo. A una prima lettura, sembra che il fenomeno abbia assunto in tempi recenti una consistenza che prima non aveva. Ma è davvero così?

Come ricorda un recente contributo, il burnout era una preoccupazione crescente anche prima della pandemia. Uno studio condotto da Gallup nel 2018 su 7.500 lavoratori statunitensi, ha ad esempio dimostrato che veniva sperimentato dal 67% delle persone coinvolte. Un dato decisamente già alto, soprattutto se si considera un’altra ricerca statunitense svolta a febbraio di quest’anno, che lo assesta invece al 42%.

In Italia, i dati 2022 dell’Osservatorio Mindwork-BVA Doxa sul benessere psicologico in azienda, riporta che a soffrirne è il 62% delle persone. Una cifra in questo caso in linea con i dati pre pandemia. Il confronto è da fare con prudenza, perché tra ricerche e paesi diversi, ma comunque stimola una dovuta riflessione: se a fare la differenza non fosse solo stato il Covid-19? Fosse così, il quadro della situazione potrebbe farsi meno scontato di quanto sembri.

Ad avere un ruolo – ancor più che gli ultimi accadimenti – potrebbe infatti essere il contesto di incertezza e complessità generale, oltre che l’organizzazione del lavoro moderno.
Non è un caso, ad esempio, se risale al 2019 la definizione di burnout come “fenomeno occupazionale” – piuttosto che condizione medica – da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). E il suo conseguente inserimento nella Classificazione Internazionale delle Malattie.

Ad avere un ruolo importante nell’insorgenza di tale sindrome da esaurimento, infatti, sono proprio i fattori organizzativi, come sovraccarico di lavoro, mancanza di controllo sulle proprie attività, ricompense e feedback insufficienti, mancanza di equità e di senso di appartenenza alla propria realtà lavorativa. Tutti aspetti che possono sì essere stati acutizzati dalla pandemia, ma che è ragionevole pensare esistessero anche prima. Soprattutto alla luce dei dati sopra riportati.

Per combattere il burnout alla radice è dunque necessario intervenire sul clima e la cultura organizzativa, piuttosto che sulla tenuta psicologica del lavoratore o della lavoratrice. Tale fenomeno, infatti, non è qualcosa “che capita”, ma che si verifica a causa di determinate condizioni. Alla luce del suo essere un problema organizzativo, dunque, il burnout non può essere affrontato lasciando all’individuo l’onere di farlo.

Le aziende possono dunque agire iniziative volte a contrastarlo solo analizzando i propri processi e rendendo maggiormente consapevoli le figure che ricoprono ruoli di responsabilità. Solamente attraverso il loro supporto, infatti, è possibile mitigarne i rischi.
Aspetto, quest’ultimo, ricordato anche dall’OMS, che per la prima volta nella storia ha recentemente raccomandato proprio la formazione di dirigenti e manager per sviluppare le loro capacità di prevenire gli ambienti di lavoro stressanti.

Servono leader in grado di dare feedback puntuali, capaci di alimentare il senso di equità e appartenenza all’azienda – anche e soprattutto nel lavoro da remoto. È necessario intervenire sui carichi di lavoro e – parallelamente – mettere le persone nella condizione di sentirsi in controllo del loro operato. Tutte competenze che vanno acquisite attraverso una formazione continuativa e un supporto consulenziale e psicologico a chi – in azienda – possiede il potere di cambiare davvero le cose.

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