Spose bambine, in Italia casi in crescita

Sono 650 milioni oggi nel mondo le donne che sono state date in sposa da bambine – riportano i dati Unicef, circa la metà di questi matrimoni precoci sono avvenuti in Bangladesh, Brasile, Etiopia, India e Nigeria. Quella delle ‘spose-bambine’ è una realtà che purtroppo è ancora diffusa nel mondo ed è presente anche in Italia anche se sommersa, poco monitorata e ancora pressoché ignorata tranne quando sfocia in casi di cronaca.

A rischio  100 milioni le bambine da qui al 2030

Fortunatamente, rileva l’organizzazione delle Nazioni Unite, nel corso del tempo in diversi Paesi è stata introdotta una legislazione che vieta di contrarre matrimonio prima dei 18 anni anche se usi e costumi ancora prevalgono. Negli ultimi 10 anni la percentuale di ragazze costrette al matrimonio da bambine è diminuita del 15% e questo corrisponde a 25 milioni di matrimoni evitati.

Ma sono ancora 100 milioni le ragazze a rischio di matrimonio precoce da qui al 2030: è quindi necessario per raggiungere il traguardo “zero” entro quella data (come previsto dagli Obiettivi di Sviluppo sostenibile) accelerare a livello globale i progressi in questa direzione.

In Italia casi in crescita

Per quanto riguarda l’Italia, il riferimento è ai dati rilevati dal ministero dell’Interno dall’entrata in vigore del Codice rosso: la legislazione contro la violenza di genere che ha introdotto, tra l’altro, il reato di costrizione o induzione al matrimonio. Complessivamente, negli anni dal 2019 al 2021 sono stati rilevati 35 casi di matrimoni forzati: 7 del 2019 a 8 del 2020 e 20 nel 2021. Un incremento che può essere legato sia alla più diffusa conoscenza della norma che a una maggiore propensione al suo utilizzo e alla denuncia, quindi all’emersione di un fenomeno ancora sommerso.

Da questi dati, per quanto ancora parziali, emerge che l’85% delle vittime sono donne, di cui un terzo minorenni, e prevalentemente di origini straniere. La concentrazione maggiore dei casi rilevati è nelle regioni settentrionali, in particolare Emilia-Romagna e Lombardia. Una localizzazione che collima con l’esperienza sul campo di Tiziana Dal Pra’, fondatrice nel 1997 di Trama di terre, un’associazione interculturale di donne che ha il suo nucleo nella relazione con le donne migranti.

Le aree più a rischio, riferisce, sono “il bresciano e la parte vicino a Reggio-Emilia, dove sono avvenuti negli anni degli episodi e dove c’è una forte concentrazione di persone provenienti da Paesi dove questa manifestazione di violenza sociale e patriarcale verso le donne è molto alta”.

Le leggi esistono, manca ancora la cultura

Dai dati del ministero dell’Interno relativi alle vittime straniere (il 64%) emerge che la nazionalità pakistana è quella prevalente (57%) poi quella albanese (10%) seguono (con un caso ciascuno) India, Bangladesh, Sri Lanka, Croazia, Polonia, Romania e Nigeria. Anche questi dati ricevono una sostanziale conferma dall’attività sul territorio di Tiziana Dal Pra’, che riferisce di avere cominciato ad occuparsi dei matrimoni precoci nel 2009, rilevando che alcune ragazze scomparivano da scuola verso la terza media o pochissimo prima.

Questa cosa – spiega – ha cominciato a preoccuparmi. Abbiamo fatto una indagine sul territorio dell’Emilia Romagna per andare a vedere se questa percezione era reale e sono emersi 47-49 casi. Nel momento in cui si è confermato che il problema esisteva, abbiamo cominciato a guardare le nazionalità coinvolte e cosa succedeva nei Paesi di provenienza: Pakistan, Bangladesh, India, Albania, Kossovo”.

Sono Paesi che, anche sulla scia delle convenzioni internazionali, hanno leggi in materia: “In Pakistan, ad esempio, la legge prevede i 18 anni d’età e c’è una casa rifugio in caso di matrimoni forzati. Il problema non sono le leggi ma vedere quanto queste corrispondano alla volontà delle famiglie, dei cittadini. In Pakistan ci sono 800 donne uccise all’anno per l’onore”.

Per capire e contrastare il fenomeno serve quindi anche un lavoro di comprensione e di interrelazione con i Paesi di origine per Simona Lanzoni, vicepresidente di Fondazione Pangea: “E’ giusto in primo luogo fare un focus maggiore sulla questione dei matrimoni forzati qui in Italia ma occorre anche creare dei protocolli ad hoc bilaterali o multilaterali con i Paesi di provenienza e distinguere tra matrimoni forzati e matrimoni precoci e combinati”.

Dai matrimoni combinati ai matrimoni forzati e precoci

Perché è vero che quella dei matrimoni combinati è una pratica che in diversi Paesi ha ancora un radicamento socio-culturale oltre ad essere acuita da situazioni di povertà. Una pratica che, soprattutto in età precoce, sfocia nei matrimoni forzati. Ed è su questo che Governi, organizzazioni internazionali e Ong stanno lavorando. Lo spiega, ad esempio, la responsabile per il Kenya di Weworld, Annarita Spagnuolo, che è impegnata principalmente nella contea di Narok, con la comunità Masai, dove i matrimoni precoci si accompagnano alla pratica delle mutilazioni genitali femminili.

Una “strada lunga da percorrere – rileva – dato che il cambiamento del comportamento prende generazioni: accanto al grande lavoro di ‘empowerment’ delle ragazze, c’è quello con tutto il sistema, a partire dai genitori, i maestri, i capi-villaggio, gli anziani del Consiglio. E’ importante dimostrare che si può mantenere la propria cultura in tanti modi diversi ma non facendo soffrire le bambine”.

Dai dati dell’Unicef risulta che circa 140 milioni di donne e ragazze in Africa sono state sottoposte a mutilazioni genitali femminili, di queste oltre 40 milioni hanno subito anche un matrimonio precoce. Purtroppo i progressi che si stanno registrando a livello globale hanno subito una battuta di arresto a causa della pandemia Covid: isolamento, chiusura delle scuole, crisi economica potrebbero comportare, secondo uno studio dell’Unicef, 10 milioni di spose-bambine in più da qui al 2030.

In alcuni Paesi, all’effetto pandemia, riferisce ancora Annarita Spagnuolo, si aggiunge anche l’impatto del cambiamento climatico: “Covid e crisi climatica hanno avuto un effetto devastante sulla lotta alla pratica delle mutilazioni genitali e dei matrimoni precoci, perché non tutti hanno gli stessi mezzi per reagire. Nelle zone rurali per più di un anno molti studenti sono stati a casa. La scuola è un ambiente protetto, ci sono gli insegnanti, i pasti sono assicurati. Se sei a casa sei più soggetto agli abusi: nel 2020-2021 a Narok c’è stato il 40% in più di gravidanze precoci, un dato allarmante”.

E a questo si aggiunge la povertà causata dall’impatto della crisi climatica, della siccità: “In una famiglia con otto figlie, ad esempio, ‘sacrifichi’ la più grande, la mandi in sposa ricevi la dote e fai mangiare gli altri figli”.

Il problema del sommerso dall’America Latina all’Asia e all’Italia

E il continente africano non è l’unico ad essere interessato dal fenomeno dei matrimoni forzati. Lo sottolinea ancora Simona Lanzoni: “A mio avviso – afferma – rimane un grande sommerso anche in altri continenti come l’America Latina. Senza contare, per tornare in Asia, paesi come l’Afghanistan, dove la presenza delle Ong è sempre più limitata dai divieti dei talebani, dove i dati statistici sono difficili da reperire e da dove- riferisce ancora- arrivano notizie allarmanti di tantissime ragazze costrette a sposare talebani”.

Tornando a quanto accade in Italia, Simona Lanzoni spiega che “purtroppo i casi dei matrimoni forzati sono molto difficili da intercettare e sostenere nel percorso di liberazione. C’è un quadro culturale all’interno del quale si muovono che travalica le nostre leggi: una legge familiare, morale e patriarcale. C’è bisogno di un lavoro di elaborazione del legame familiare perché in alcune comunità si viene educate fin da piccole a far parte senza vie di uscita di un certo contesto familiare. Tagliare quel legame è qualcosa di molto potente da realizzare: è un lavoro sulla identità fondante della persona e sul suo empowerment”. La questione dei matrimoni combinati e forzati, aggiunge, è “legata non solo alla dote ma anche all’onore della famiglia”.

Dunque “è molto difficile scardinare il contorno culturale. Le ragazze della generazione 2.0 vivono la contraddizione tra il voler essere autonome e mantenere il legame ai doveri familiari”. C’è, rileva Tiziana Dal Pra’ “un accerchiamento di schemi sociali e familiari molto forte e spesso le ragazze non solo hanno paura ma non vogliono denunciare i familiari. Tentano di uscire da un filo spinato altissimo che hanno intorno e, se serve, vanno messe sotto una sorta di protezione”.

Il ruolo della scuola nel nostro Paese

Per affrontare la questione occorre, anche in Italia, un intervento su più piani. In primo luogo un “lavoro nelle comunità, sui diritti, tenendo presente che, quando non si fa nessun tipo di integrazione, non c’è nessun contatto, neanche l’apprendimento della lingua” afferma Simona Lanzoni.

Sulla stessa linea, Tiziana Dal Pra’ che ricorda come uno degli aspetti della questione da tenere presente è quello della ‘chiusura’ delle comunità interessate: “Si spostano, spostando con loro l’intera idea di società. Per cui queste figlie che si integrano fanno paura: hanno una idea di esistere come donne, come persone”.

Accanto a questo, sia Lanzoni che Dal Pra’ sottolineano l’importanza della scuola come luogo dove possono essere intercettati i casi. “C’è bisogno – sottolinea Lanzoni – di un processo di educazione nelle scuole perché sono gli unici posti in cui puoi lavorare sulle giovani generazioni. Si dovrebbe puntare alla formazione degli insegnanti al tema della violenza, la cui presenza potrebbe essere ‘intercettata’ a scuola così come nelle biblioteche pubbliche, nei centri di formazione professionale”. Il terzo livello, rileva infine, è quello della “preparazione di assistenti sociali e forze dell’ordine, creando procedure e linee guida per favorire le segnalazioni e la risoluzione dei problemi che, se sottovalutati, finiscono in femminicidi”.

Ma qual è la risposta in Italia a questo fenomeno? Simona Lanzoni rileva che “la società italiana non è assolutamente pronta. Non tutti i centri anti-violenza si sanno occupare di matrimoni forzati e in Italia non ci sono delle case rifugio ad hoc per donne (o anche uomini in caso) vittime di matrimoni forzati”.

Tiziana Dal Pra’ vede qualche spiraglio, dei segnali di attenzione da parte della società civile: “La politica è ancora estremamente distante mentre la società che si reputa accogliente, la scuola, i servizi sociali, l’associazionismo, si stanno interrogando e si stanno aprendo, non per voler giudicare, ma per voler capire e contribuire a un cambiamento”. Questo è un segnale importante, rileva, perché “polizia, servizi sociali e sanitari devono essere tutti formati nella stessa direzione. Se no l’unica cosa che si ha a disposizione è il codice rosso, con la possibilità di agire solo in un contesto repressivo e non anche di prevenzione e di formazione”.

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