Il patriarcato è vivo e lotta contro di noi: potrebbe essere questo il titolo della prima serata andata in onda sabato scorso, nella puntata che riapre la stagione di C’è posta per te. La vicenda presentata è quella di un matrimonio interrotto. La causa: il tradimento; non di lui – attenzione – ma di lei.
Vanno in onda il senso di colpa e la mortificazione
La lei della storia è giovane, ha conosciuto il marito che aveva sedici anni e oggi hanno tre figli piccoli. Lo manda a chiamare per chiedergli scusa e “conquistarsi” un’altra possibilità. È incorsa nel peggiore degli errori che si possano permettere a una donna: dice di sé che stanca di essere costantemente sminuita, derisa e umiliata, a un certo punto, finisce per intraprendere una relazione extraconiugale con un collega di lavoro. Appena manifesta la volontà di separarsi, però, subito si ravvede. È a questo punto che si innesca la dinamica della colpa e della punizione. Nulla basta a cancellare la malefatta, quella che il coniuge definisce – non senza tratti di grande teatralità – “una ferita aperta” , “un torto troppo grosso“.
Raccontando del tradimento – consumato e subito confessato – nella comparsata che va in scena, la protagonista tira fuori tutta la storia. Quello della giovane all’interno della coppia è un vissuto doloroso, interessante perché sovrapponibile a molte altre situazioni analoghe. Mentre lei ripercorre mesi di mortificazione (e lo fa in preda al più insostenibile senso di colpa), quella che ci si para davanti ha tutti i tratti di una relazione a-simmetrica. La ragazza non esiste che come moglie e madre, della donna non v’è alcuna traccia; lei vive compressa in un rapporto fatto di abusi ancorché – e non è una deminutio – di tipo psicologico.
Davanti a un pubblico che applaude a ogni tentativo della conduttrice di convincere e riappacificare, lui si smarca, offeso. Lei continua, contrita, pentita, del tutto assuefatta alla mortificazione che pure racconta di vivere da anni, come fosse normale.
Ai maltrattamenti è ancora troppo difficile dare un nome
È un dato costante, purtroppo, che la percezione dei maltrattamenti (e ciò anche nei casi, diverso da quello raccontato in tv, in cui la violenza è fisica) nelle vittime per lo più è pari a zero. Fa parte della dinamica: quando le donne subiscono o vengono vessate, spesso è senza più nemmeno sentire dolore. Il resoconto della vita familiare è roba d’altri tempi che resiste alla modernità. La mancanza di rispetto è nelle parole ed è manifesta, nemmeno smentita dal protagonista: il marito umilia la moglie, anche prima del tradimento, e lo fa davanti alla famiglia, davanti ai bambini e persino in presenza degli amici; la narrazione che entrambi fanno in tv dice che lui la prende frequentemente per stupida, che le dà dell’inadeguata, come fosse la cosa più naturale al mondo. A completare il quadro sono i dettagli, quelli che fanno la vita di tutti i giorni: su di lei – e su di lei soltanto – grava tutto il lavoro di cura, malgrado abbia un’occupazione in un fast food che la impegni anche fuori di casa. Il marito, al contrario, fa l’uomo: appena rientra si installa sul divano. Perché è stanco e, dopo le fatiche quotidiane, deve riposare. Ovviamente. Una situazione come quella descritta dovrebbe forse suggerirci qualche domanda.
Cosa dice la legge in tema di abusi e maltrattamenti
In punto di diritto – vale la pena ricordarlo – dove c’è denigrazione, oltraggio, offese è la Cassazione a fare un po’ di chiarezza. Perché i comportamenti non sono tutti leciti:
“integra l’elemento oggettivo del delitto di maltrattamenti in famiglia il compimento di più atti, delittuosi o meno, di natura vessatoria che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, senza che sia necessario che essi vengano posti in essere per un tempo prolungato, essendo, invece, sufficiente la loro ripetizione, anche se in un limitato contesto temporale, e non rilevando, data la natura abituale del reato, che durante lo stesso siano riscontrabili nella condotta dell’agente periodi di normalità e di accordo con il soggetto passivo”.
Un rapporto in cui uno dei due compia atti di disprezzo, agisca per umiliare, sminuire, svalutare è insomma ciò che i giudici definiscono un rapporto abusante.
La violenza presentata come normalità
Ecco, forse una riflessione ulteriore va ancora abbozzata. Dando per vero il copione cui abbiamo assistito, ciò che non può passare sotto silenzio è che molti aspetti importanti siano rimasti pressoché in ombra. In scena tutto ha ruotato intorno alla espiazione: il tradimento della donna come colpa, peccato, stigma dentro e fuori la famiglia, onta da cancellare, affronto impossibile da perdonare. Un’azione, quella di lei, che alla fine è servita a garantire all’uomo ancora l’occasione per continuare a occupare una posizione dominante. Così è quando, in tutta chiarezza, lui le dice che le si concede (dopo l’affronto subito) ma solo per uno “sfogo”, in conseguenza di attenzioni cui un maschio non può (né deve) sottrarsi.
La considerazione finale non potrà che prendere le mosse dall’osservazione di quanto trasmesso: quelle rappresentate durante il servizio sono condotte molto gravi, fatti che avrebbero dovuto essere censurati con forza; non abbiamo visto invece la dovuta attenzione per la donna; abbiamo sentito per contro infinite parole, spese come preghiere, che si sono sprecate per un’intercessione, andata in onda in prima serata tv.
Il messaggio che passa continua a essere quello di una pretesa normalità, fatta di soprusi, agiti dall’uomo dentro la relazione sentimentale. E ciò mentre di violenza domestica non riesce ancora a parlarsi nel modo corretto. Gli esempi nel palinsesto si sprecano: da Amore criminale, per guardare alla rete di Stato (prodotto che certifica un ossimoro e di cui le associazioni antiviolenza sono arrivate a chiedere la chiusura), in avanti è tutto un sottovalutare, con un taglio alla storia che ricalca la prospettiva del maltrattante, persino quando a doversi raccontare è un femminicidio.
La fine del programma condotto da Maria De Filippi è scontata: la busta si apre, i due vanno via insieme. E viene da domandarsi – guardando la giovane di spalle, il suo passo incerto mentre cerca la mano che l’altro le nega.- quanta sofferenza e quanta umiliazione tutto ciò le costerà ancora.
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